“Perfect Days”, la struggente poesia nelle piccole cose di Wim Wenders

Napoli. Lo scorso 4 gennaio è iniziata la distribuzione nelle sale cinematografiche italiane di “Perfect Days”, l’ultimo film diretto da Wim Wenders. Il lungometraggio è ambientato a Tokyo e racconta il quotidiano, sempre sostanzialmente uguale, di Hirayama, un uomo di mezza età che lavora con grande meticolosità e senso del dovere come addetto alle pulizie dei bagni pubblici della città. Le sue giornate sono caratterizzate dalla monotonia delle sue attività: ogni mattina si sveglia con il rumore che proviene dalla strada di una scopa di saggina che pulisce le strade dalle foglie secchie. Si alza, ripone in ordine materasso e cuscino, innaffia le sue piante, si lava i denti, si veste, prende dal ripiano vicino l’ingresso le chiavi di casa, quelle dell’auto e qualche spicciolo per comprare il caffè: poi esce di casa, guarda verso il cielo accennando un sorriso, sale in auto e mette in moto. La sua vita è rigorosamente analogica: in auto ha ancora le musicassette. Non ha smartphone ma un cellulare di vecchia generazione. Nessun dispositivo elettronico. Usa una vecchia macchina fotografica Olympus e ogni settimana porta a sviluppare il rullino. La sera si addormenta leggendo libri cartacei che compra usati. Va in bici quando non deve portarsi dietro l’attrezzatura da lavoro. La sua vita è fin troppo modesta ma, come ci insegna spesso la filosofia orientale, basta saper guardare anche solo un po’ dietro le apparenze per ritrovare un inatteso spessore intimistico. E così con grande semplicità il protagonista regala alla nipote che lo va a trovare perle di saggezza. “Un’altra volta è un’altra volta! Adesso è adesso!”, le dice quando lei gli chiede di portarla al mare. Che altro non è se non il principio del “qui e ora” che guida il suo stesso modo di stare al mondo, quando gode sinceramente per un mattutino raggio di sole o gioca a calpestare le orme con un malato terminale. Oppure le spiega che il nostro mondo non è unico: le persone appartengono spesso a mondi diversi e non sempre questi sono comunicanti tra loro, quando lei gli chiede come mai non va d’accordo con la sua mamma, che è sua sorella. Che è la giustificazione che egli dà un po’ anche a stesso quando non riceve risposta al suo garbato saluto da chi lo guarda con sospetto, forse per via del suo lavoro umile. Tutto il film nel suo insieme rispecchia sin dalla sua genesi questa caratteristica: una toccante profondità anche nelle piccole cose di tutti i giorni. Nasce infatti dall’idea di commissionare al regista tedesco un documentario sul progetto “The Tokyo Toilet” messo su da The Nippon Foundation, una organizzazione benefica che si occupa di welfare e che ha chiesto a creativi ed archistar di progettare 17 bagni pubblici a Shibuya, uno dei quartieri più famosi della città di Tokyo, al fine di sfatare il mito diffuso per cui si tratta solo di luoghi sporchi e pericolosi. Wim Wenders decide però di trasformare l’idea di un normale documentario in un lungometraggio di finzione e scrive, insieme con Takuma Takasaki, il racconto delle giornate di Hirayama, e dei suoi sogni in bianco e nero (che sono opera di Dorothea Wenders, moglie del regista). I dialoghi sono ridotti all’osso e la recitazione di Koji Yakusho è magistrale, cosa che gli è giustamente valsa il premio come miglior attore a Cannes. Il risultato finale che l’occhio del grande regista restituisce è una struggente poesia: la profondità con cui ci si può emozionare anche solo osservando il Komorebi, termine giapponese con cui si indica il riflesso, ogni volta unico e irripetibile, della luce che passa attraverso le foglie, o ascoltando “Feeling Good” di Nina Simone. Da non perdere.

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