Peter Greenaway e l’opera cinematografica, una riflessione sullo stile del regista gallese

Reggio Calabria. Il cinema di Peter Greenaway viene definito cinema espanso, multimediale ed ipertestuale, molto vicino alla sperimentazione visiva che al cinema tradizionale. Il piano espressivo di questi film è sensibile ad una molteplicità di forme e sostanze espressive che convivono in un unico piano. “L’immagine cinematografica viene trattata in post produzione come un significante pittorico, come una tela su cui si depositano strati di colore. Il significante filmico è totalmente preso in carica dal codice digitale, che determina un’assoluta indifferenza per il campo referenziale da cui immagine e testo derivano”. (“Il cinema e le arti visive”, A. Costa, Einaudi, 2002). “Il cinema digitale e i New Media agiscono come il computer, che secondo Lev Manovich è una grande interfaccia culturale che non distingue tra immagini prese dal vero, animazioni in 3D, fotografie, testo e ragiona secondo una logica binaria (1-0), che riconduce tutte le informazioni ad una sequenza di impulsi elettronici o alla densità dei pixel”. (“Il linguaggio dei nuovi media”. Lev Manovich, Olivares 2002). Il computer adotta strategie di omologazione differenziate che poi restituisce in fase di visualizzazione su schermo, mediante strategie definite dall’autore/utilizzatore del testo. Quello di Greenaway è un cinema multimediale che riflette sul nuovo statuto dell’arte nell’era dei media digitali. Estetica e tecnica si fondono in un’immagine densa ricca di contrasti. Il significante è inscritto nei contrasti tensivi che nascono da una composizione simile a un lavoro di bricolage, come definito da Claude Lévi-Strauss in “Il pensiero selvaggio”. Secondo quest’ultimo, il bricolage, è un’operazione di ricostruzione di elementi intermediari o di segni che, come le immagini, hanno un potere referenziale. Le qualità sensibili e referenziali di questi segni secondi sono un tutt’uno con l’uso e le connotazioni culturali. “Il Greenaway-bricoleur è un collezionista nel senso fuchsiano del termine, che procede attraverso una forma di pensiero disgiuntiva e che gestisce, su un solo supporto, piani e materie espressive diverse, rinvii intertestuali e infinite citazioni. Greenaway prende il girato e compie una vera e propria scrittura ipertestuale della banda visiva, sonora e grafica, creando un piano reale dell’immagine che è allo stesso tempo pittorico ed audiovisivo. Il successivo passo è quello di immaginare la scrittura filmica, non come un fare estetico, ma piuttosto come un fare tecnico; il risultato può essere paragonato al meccanismo o alla pratica di costruzione di un’interfaccia grafica o alle forme di scrittura ipertestuale. Lo stile di Greenaway sorprende e spesso frustra lo spettatore che si perde tra i continui rimandi, enigmi e citazioni paratestuali e intratestuali. È uno stile che conserva in trasparenza una memoria figurativa di tutti i passaggi e che gioca sul suo essere un perfetto esempio di palinsesto. È sicuramente un cinema che fa della reiterazione e della ridondanza la marca stilistica più forte e che si avvicina al pensiero premonitore di Eco riguardo l’opera aperta o l’opera in movimento. È un cinema dell’assurdo, del pasticcio barocco, la cui fruizione assomiglia più all’esplorazione di un sito web o alla visita di un museo che alla visione di un film. Uno spettatore ingenuo non troverà una vera e propria fine, figuriamoci un lieto fine”.(“Tensione ed Espressione. Il cinema espanso di Peter Greenaway”, Maria Antonia Manetta, Ocula.it). Greenaway lamenta come la narrazione lineare sia il formato standard della produzione cinematografica. Nella costruzione delle sue opere si rifà al concetto di database. È infatti possibile pensare a tutto il materiale girato come a un database, anche perché la realizzazione non segue la narrazione, ma le esigenze della produzione. In fase di editing, il montatore costruisce la narrazione attingendo a questo database e creando una traiettoria attraverso lo spazio ideale costituito da tutti i film che si sarebbero potuti teoricamente realizzare. L’ obiettivo di Greenaway è di portare “il cinema fuori dal cinema”, farlo interagire con tutte le altre stimolazioni culturali e mediali della quotidianità. È in questa direzione che si inscrive la serie di installazioni d’arte e di mostre nei musei che dagli anni Novanta sta continuando a proporre, affidandosi agli schermi per rimanere sempre all’avanguardia. Cercare il cinema fuori dal cinema, ad esempio, nella piazza centrale di un luogo storico come Bologna. Affidata all’estro creativo di Peter Greenaway, Piazza Maggiore è stata per otto giorni, nell’ambito del progetto dedicato a Bologna capitale europea del 2000, teatro di un evento multimediale. E per restituire il passato della città che vanta il più antico ateneo, Greenaway traduce nell’immagine di una mano che scrive l’idea della cultura nel suo farsi e della scrittura nel suo divenire storia. La scelta di rendere duemila anni di storia cittadina attraverso storie apocrife, dove si intrecciano finzione, eventi realmente accaduti e humour, risponde, infatti, all’esigenza di un cinema che racconti per immagini e lasci allo spettatore la possibilità di letture diverse. Stando a quanto scritto finora, l’avvento delle nuove tecnologie nell’universo dell’arte è stato un enorme fattore di cambiamento delle nostre pratiche di consumo culturale.

Crediti foto: Elmer Leupen.

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