“Celeste”, al Piccolo Bellini va in scena un unicum tra le storie del periodo nazista

Napoli. Dal 19 al 24 aprile va in scena al Teatro Piccolo Bellini “Celeste”, uno spettacolo di Liberaimago. Nel 1925 a Roma, nel Ghetto ebraico, nacque da Settimio ed Ersilia Celeste di Porto. Non si sa molto di lei, ma dalle cronache, su qualche articolo di giornale, qualche ancor non troppo logora memoria tira fuori questa vecchia, impolverata ma spietata storia. La storia della “pantera nera”. Di quella bellissima e fatale ragazzina di diciotto anni che, dopo il rastrellamento del ghetto romano ad opera dei tedeschi guidati da Kappler, decide di diventare una delatrice. Di vendere gli ebrei. I suoi correligionari. Inizia così un vero e proprio periodo buio per gli ebrei del ghetto italiano; coloro i quali venivano “salutati” con un cenno della mano da colei la quale era riconosciuta come una delle più belle ragazze di Roma non avevano scampo. Per ogni “capo”, lei guadagnava cinquemila lire. E non importa se a finire nelle mani delle camicie nere fossero donne, bambini o uomini. No. La “pantera nera” era indifferente al genere, alle età. Solo la sua famiglia doveva essere risparmiata. Ma il padre non riuscì a portare questo enorme peso sulla coscienza e si consegnò alle SS. I fratelli, tra cui Angelo, tanto amato, la rinnegarono. Solo la madre continuò a volerle bene. Carcere di Regina Coeli, Roma, anno 1994. Sui muri della cella numero 306, terzo raggio, incisa con un chiodo si legge (si leggerà ancora?) la scritta: “Sono Anticoli Lazzaro, detto Bucefalo, pugilatore. Si non arivedo la famija mi è colpa de quella venduta de Celeste Di Porto. Rivendicatemi”. Una tragica denuncia in poche righe. Anticoli fu arrestato il 23 marzo 1944 al mattino; un povero ragazzo del Ghetto, si guadagnava da vivere combattendo sui ring di terza categoria. Era sposato da poco e aveva una bambina. Quando andarono a prenderlo riuscì ad abbattere tre militi fascisti prima di essere trascinato in carcere. A denunciarlo era stata Celeste. Quella sera, nel suo ufficio di via Tasso, il colonnello Kappler stava compilando l’elenco de 330 italiani di cui Hitler aveva chiesto la morte per rappresaglia all’ attentato di via Rasella e alla strage dei 33 poliziotti tedeschi. Gli mancavano cinquanta nomi e li chiese al questore di Roma, Caruso. Costui, esitante, si rivolse al ministro degli Interni Buffarini Guidi, che gli rispose: “Daglieli, daglieli, se no chissà cosa ci fanno…”. Caruso racimolò quanti più infelici poté, ma non bastavano. Disse Kappler: “Allora trovate qualche ebreo”. Ma Lazzaro Anticoli non avrebbe dovuto morire. Nella lista di Kappler non c’era infatti il suo nome, bensì quello di Angelo Di Porto, fratello della pantera nera, arrestato lo stesso giorno; all’ultimo momento il suo posto nell’ elenco, per mano di Celeste, venne preso da Anticoli e Angelo si salvò. Caduto il regime, si trasferì a Napoli. Scelse una nuova identità, si fece chiamare Stella Martinelli, prostituta in una casa d’appuntamenti. Un giorno entrarono tre ebrei romani, la riconobbero e la denunciarono. Fu portata a Roma a Regina Coeli. Una prima volta evase, una seconda non le riuscì e dovette affrontare il processo nel 1947. Tentò di difendersi e non poté quasi parlare. Il pubblico di ebrei e di parenti dei martiri le urlava il suo odio, più volte fu necessario sgomberare l’aula e lei si proclamava innocente, le accuse erano calunnie, guardava la gente con gli occhi neri lampeggianti di sfida. Fu condannata a dodici anni, ne fece soltanto tre tra condoni e amnistie e uscì dal carcere di Perugia nel 1950, dopo un periodo trascorso a Viterbo. Chissà cosa le accadde in quei tre anni di detenzione. Si disse che le prese una crisi mistica. Si convertì alla religione cattolica, divenne tutta cappellano e chiesa. Voleva addirittura farsi monaca e, una volta tornata in libertà, fu ospitata in un convento di clarisse di Assisi, dove la sua nuova vocazione mistica era stata presa per buona. Si sa però che un anno più tardi fu cacciata, troppo in contrasto con i principi della regola. Di lei, in seguito, s’è perduta ogni traccia. Qualcuno dice che restò a Centocelle, sposata e casalinga. Altri giurano che fuggì a Milano e cambiò nuovamente identità. In qualsiasi caso, di lei, resta solo la fama. La feroce fama di pantera nera. La storia di Celeste di Porto, nell’infinito panorama delle storie legate al periodo nazista, rappresenta unicum, una sfaccettatura totalmente differente dai canonici punti di vista da cui si racconta questo triste avvenimento storico. Celeste è una figura rara, una ebrea, una ebrea che nella sua psiche evidentemente subì lo scatto del classico “istinto di sopravvivenza” che la spinse a commettere atti orribili contro la sua gente. Spietata, sì, e questo spettacolo non ha alcuna pretesa di assolverla, ma di narrare. Di raccontare ciò che lei fece, sforzandosi di immaginare anche il perché, o inventarlo. Perché alcune storie non lasciano traccia, se non una scritta nel muro di una cella carceraria. Una scritta incisa con un chiodo. E con tutta la rabbia di chi non sa. L’inconsapevolezza di chi è allo scuro di tutto. Ebbene, facendo luce in modo coerente, seguendo quindi la voce di un personaggio scomodo ma reale, ci si pone l’obiettivo di un racconto. Di una narrazione che va, esile, ad infilarsi nell’enorme, smisurato, archivio di un periodo storico che verrà ricordato come un periodo malato.

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