Il silenzio non deve più essere sacro

Como. La giornata del 25 novembre, è spesso erroneamente considerata e denominata, sia sul web sia nelle trasmissioni televisive la “Giornata contro la violenza sulle donne”.
Il suo vero nome è “Giornata per l’eliminazione della violenza sulle donne” e si tratta di una ricorrenza istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1999 in memoria delle sorelle Mirabal, attiviste della Repubblica Domenicana, assassinate il 25 novembre 1961 per la loro opposizione al regime dittatoriale.
A mio giudizio questa denominazione porta con sé un significato decisamente più profondo ed efficace: non si tratta di qualcosa cui semplicemente opporsi, da contestare privatamente e da rinnegare, bensì di un fenomeno da liquidare, sopprimere e abolire affinché le future donne, le nostre figlie e nipoti, possano vivere in un mondo più giusto e meno ipocrita di quello attuale, che sotto una patina di finta indignazione, condanna ancora la vittima anziché il carnefice.
Primo fra tutti un nome sicuramente noto nel panorama giornalistico italiano che, commentando il celebre e ampiamente discusso caso Genovese, poche ore prima del 25 novembre, definisce molto ingenua la ragazza rimasta coinvolta nelle tragiche vicende della notte tra il 10 e l’11 ottobre, caricando il termine di grande ironia e disprezzo per chi, a soli diciotto anni, non è riuscita a difendersi da un mostro come l’acclamato imprenditore milanese, ma alla fine si è fatta portatrice del coraggio e della forza che l’ha spinta a denunciarlo, iniziativa che purtroppo ancora oggi porta a termine solo il 14% delle donne che hanno subito violenze.
Quest’anno, tra le varie iniziative culturali che periodicamente vengono promosse per combattere la violenza di genere, spicca sicuramente la mostra Indicibile II – Virtualmente non autorizzata (https://www.allebonicalzi.com/indicibile/le-opere/) dell’artista, filosofa e fotografa Alle Bonicalzi, composta da 59 immagini dense e cariche di significato.
L’ispirazione per la mostra nasce dalla serie fotografica realizzata dall’autrice e dall’impossibilità di esporla in uno spazio dove fosse fruibile al pubblico alla luce del D.P.C.M. del 4 novembre.
L’artista ha sempre pensato per le proprie opere un luogo aperto, ampio, con le immagini ingrandite e stampate come quelle pubblicità che invadono ogni giorno la nostra privacy e rubano lo sguardo anche al passante più distratto, ma che, per una volta, avrebbero dovuto richiamarlo a una causa molto più importante delle incredibili offerte di qualche supermercato o di un nuovo profumo, ovvero il silenzio che alleggia intorno agli episodi di violenza sulle donne.
Partendo da questa idea Alle Bonicalzi ha fotografato in vari angoli della sua città, Como, cartelloni pubblicitari che ha poi sostituito digitalmente con le proprie opere e ha reso condivisibile il materiale sul suo sito internet e sui suoi profili social.
Si tratta dunque di una mostra fake, virtuale, presente solo sul web, che tuttavia, pur senza un luogo fisico di fruibilità, se condivisa, acquista una rilevanza immensa nel mondo dei nostri giorni al fine di attirare l’attenzione su l’esperienza tragicamente vissuta, alla luce dei nuovi dati emessi dall’ISTAT, da ben il 31,5 % delle donne dai sedici ai settant’anni per un totale di 6 milioni e settecento ottantottomila vittime di violenza solo nel nostro Paese.
Si tratta altresì di un invito alle donne che subiscono abusi fisici, psicologici, economici e di qualsiasi natura a condividere il loro dolore e la loro sofferenza affinché assuma sempre più importanza e costituisca un esempio per tutte quelle che, dopo il loro atto di estremo coraggio, avranno anch’esse la forza di denunciare i propri oppressori con la consapevolezza, pur in un mondo ostile alla figura femminile e ancora estremamente bigotto e ipocrita, di una rete di salvataggio pronta ad aiutarle e a proteggerle nella loro rinascita.
Oggi le vittime di violenza si chiamano survivors e trovano ampio spazio sui social, nella letteratura young adult e del settore, ma non hanno ancora la rilevanza di cronaca che dovrebbe essere retribuita a una situazione universale: presente dall’inizio della nostra storia e che attraversa ogni ceto sociale.
Un esempio che si lega, proprio per il suo intento, alla mostra fotografica di Alle Bonicalzi è sicuramente il romanzo Speak di Laurie Halse Anderson, che racconta la cruda storia di uno stupro subito da una ragazzina del liceo da uno studente dell’ultimo anno, trauma per cui verrà esclusa dalla vita sociale della propria scuola e che le causerà la quasi totale perdita della voce, ritrovata solo nel momento della confessione di quell’atto terribile.
Negli ultimi giorni, sempre sui social, ha assunto grande visibilità la terribile storia di Alice, una donna uccisa dal marito, raccontata da Ornella Mereghetti nel suo componimento “Ho visto il male negli occhi” e letta, con strazio e immensa drammaticità, da Patrizio Pelizzi (https://youtu.be/bAZTCmqRFKk), attore cinematografico e teatrale italiano che abbiamo recentemente visto in “Enrico Piaggio – Un sogno italiano”, film trasmesso dalla Rai in prima visione nel novembre dell’anno scorso.
La donna della poesia racconta l’evolversi della sua storia d’amore in abusi e violenze fisiche anno dopo anno: il marito, da uomo dolce e premuroso, con la nascita del loro primo figlio si trasforma sempre di più in un soggetto violento che prima la ricopre di lividi, poi la manda in ospedale e infine, qualche anno dopo, arriva ad ucciderla tramite una coltellata. È un racconto atroce, disumano, spietato, che scardina la sensibilità del lettore o ascoltatore e che costituisce, proprio per la sua brutalità, uno strumento molto utile al fine di educare adulti e più giovani al tema della violenza sulle donne che in casi estremi sfocia nella volontà di mettere fine alla vita delle proprie vittime.
Le cinquantanove foto che costituiscono la mostra dell’artista rappresentano il volto di una donna che guarda disarmata l’osservatore e che subisce due tipi di violenza: fisica e verbale. Il viso, sempre uguale, nel corso della serie di fotografie viene pian piano tagliuzzato, stropicciato, squarciato come un foglio di carta e vi sono delle frasi, scritte con un rosso scarlatto, come “Ma ti sei vista?”, “Vedi di darci un taglio”, “Su dritta quella schiena”, “Ancora mal di testa?” o “Valuta tu se sia il caso”.
Sorge spontaneo chiedersi di chi sia quella voce che imbratta e maltratta il bel volto della fotografa, protagonista stessa delle proprie opere: è di chi le fa percepire la propria superiorità fisica, psicologica, economica, di quelle donne che, intrappolate nelle loro idee e concezioni di altri tempi, sono convinte vi sia un regime comportamentale di pudore, vergogna e imbarazzo che riguarda però solo il mondo femminile, di tutti coloro i quali, almeno una volta nella vita, hanno visto un atto di violenza e non hanno avuto la voglia di combattere quell’ingiustizia, di chi, davanti allo stupro di una ragazzina ubriaca, è solo in grado di dire “Se l’è cercata” o di giudicare il suo stato di ebbrezza e l’abbigliamento scoprente, di chi definisce Alberto Genovese un genio, un uomo di grande intelligenza che purtroppo, a causa della denuncia per stupro, passerà tanti anni dietro le sbarre.
Un altro evento culturale. La fotografia di Alle Bonicalzi, quell’arte del vero che ispirò il Verismo verghiano, qui non solo custodisce la tragedia di chi non riesce a farsi udire, di chi rimane intrappolato nella propria solitudine e nell’isolamento privato, bensì ci offre anche una prospettiva interessante sulla dialettica vero-falso, reale-virtuale: le opere, che hanno subito l’artificio dell’artista non sono in realtà false, si tratta di veri luoghi della città di Como, con la semplice sostituzione degli scatti ai vari cartelloni pubblicitari.
Questa mostra, come dice la stessa fotografa, è un invito alle donne a farsi sentire, a urlare il proprio dolore, a liberarsi delle frasi sessiste e discriminatorie che sentono ogni giorno e a ribellarsi a chiunque, con i suoi abusi di qualsiasi specie, le condanna al silenzio e le priva del loro strumento più prezioso: la voce.

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