La danza come ponte tra arte e cura del prossimo: Petra Conti si racconta a cuore aperto

Los Angeles. La storia del nostro Paese è costellata di uomini e donne illustri che hanno esportato all’estero l’essenza intrinseca della cultura nelle sue differenti manifestazioni, esempi che cavalcano i secoli e la cui eco non accenna a diminuire ma, anzi, si rinvigorisce nel tempo, costituendosi come balsamo soprattutto per gli italiani che, sovente, dimenticano di appartenere ad una delle nazioni più prolifiche artisticamente parlando.
In tale contesto si inserisce la protagonista della nostra intervista, una giovane donna contraddistinta dal talento indiscusso e dalla ferrea disciplina, una caratteristica che accomuna sia la sua vita privata che professionale. Stiamo parlando di Petra Conti.
Nata ad Anagni da padre italiano e madre polacca, Petra ha in sé il seme della danza, un seme alimentato dallo studio e dal sacrificio, certo, ma rinvigorito quotidianamente dalla passione. Nel 2006 si diploma con lode presso l’Accademia Nazionale di Danza di Roma per poi perfezionare la sua tecnica al Teatro Mariinsky di San Pietroburgo. Gli anni della formazione artistica le consentono di partecipare ad eventi tersicorei che si dipanano in Europa ma anche negli Stati Uniti e in Asia: un ricco bagaglio di esperienze che la porterà a diventare prima ballerina del Teatro alla Scala nel 2011.
La sua grazia e la bellezza delle sue performance ammaliano l’estero e così, nel 2013, vola negli USA diventando principal dancer del Boston Ballet. Definita da Panorama la “Anna Magnani della danza”, Petra colleziona prestigiosi premi e balla con alcuni tra i ballerini più noti del panorama artistico mondiale come Roberto Bolle, Ivan Vassiliev e Massimo Murru.
Nel 2017 e nel 2018 torna in Italia per esibirsi all’Arena di Verona riscuotendo uno straordinario successo di pubblico mentre nella primavera del 2019, dietro invito del Great Russian Ballet, è Giselle per ben 13 repliche che toccano ogni luogo del Canada e nell’estate dello stesso anno è nuovamente all’Arena di Verona per esibirsi non solo nell’ “Aida” ma anche ne “La Traviata”, ultimo lavoro dell’indimenticabile Franco Zeffirelli.
Un curriculum ricchissimo che fortunatamente non ha subito rallentamenti nell’ultimo, complicato biennio della pandemia.
Abbiamo raggiunto virtualmente Petra a Los Angeles per farci raccontare la sua straordinaria avventura artistica ma, soprattutto, per conoscere meglio una donna dotata di una forza incredibile e di un’umiltà fuori dal comune.

Petra, lei ha respirato danza sin da piccolissima grazie a due figure fondamentali nella sua vita, ovvero sua madre e sua sorella. Se dovesse individuare un momento preciso nel quale ha capito che il ballo sarebbe diventato anche la sua strada, quale sarebbe?
Non ricordo un momento preciso. Il mio è stato un amore nato così come nasce una bella amicizia, che poi si trasforma in qualcosa di molto più profondo. È stata una vocazione: come un richiamo, sempre più forte e più intenso verso la danza, diventata ben presto la mia vita, non solo la mia carriera.

Ripercorrendo il suo curriculum si resta piacevolmente stupiti dal calibro dei ruoli che ha interpretato finora, considerando soprattutto la sua giovane età. C’è un personaggio a cui è particolarmente legata? Se sì, per quale ragione?
Sono particolarmente legata a “Giselle” perché è il balletto con il quale ho debuttato alla Scala e il ruolo che ho ballato di più, in assoluto. Ma, in realtà, ho un amore particolare per tutti i ruoli drammatici: ciò che adoro maggiormente è la ricerca del personaggio, prima in sala e poi, soprattutto, in scena, complici la magia degli spettatori e del teatro. Adoro i ruoli in cui il personaggio che interpreto si evolve durante il balletto: gli spettacoli di due o tre atti pieni di emozioni sono, quindi, i miei preferiti e quelli che danno più soddisfazione, anche se sono sicuramente i più impegnativi.

Nel 2016 ha scoperto di avere un carcinoma al rene, una sfida che ha affrontato con grande coraggio e con il sorriso sulle labbra. Oggi è ambasciatrice della fondazione Cure Childhood Cancer (curechildhoodcancer.org). Ci spiega nel dettaglio le iniziative di questa realtà?
Mi ritengo molto fortunata ad essere sopravvissuta a un cancro al rene: se ho avuto una seconda chance in questa vita credo sia perché ancora ho molto da dare e tanto bene da fare. POINTE SHOES FOR A CURE è la mia campagna di fundraising nata dalla voglia di aiutare i bambini malati di cancro e le loro famiglie. Attraverso la danza e, soprattutto, attraverso il mio strumento di lavoro, cioè le punte, sono in grado di raccogliere fondi per Cure Childhood Cancer, l’organizzazione no profit che sostengo: ad oggi le donazioni per ricevere un paio di mie punte usate ed autografate ammontano a più di $15,000 in soli quattro anni. La donazione va direttamente a beneficio dei bambini, mentre io mi prendo in carico il costo e la logistica della spedizione delle punte, una volta ricevuta la donazione. Questo, ad ogni modo, è solo il primo passo di un progetto più a lungo termine che intendo realizzare, perché ne sento la necessità morale: io sono stata molto fortunata ed ora voglio portare un po’ di fortuna anche a chi sta ancora soffrendo. La mia azione, inoltre, è anche un modo per sensibilizzare le persone, perché il cancro è spesso ancora considerato un argomento tabù.

Anche suo marito, Eris Nezha, è un ballerino di fama mondiale: vi siete conosciuti ed innamorati sul palco ed è facile intuire che la danza sia un ulteriore collante per il vostro amore. Nell’immediato futuro ci saranno progetti che vi vedranno collaborare ancora insieme?
Noi lavoriamo sempre insieme e questo è il nostro punto di forza. Ovviamente nell’immediato futuro balleremo ancora insieme come guest artists in gala di danza e produzioni teatrali in America, Europa e Asia, come abbiamo fatto per tanti anni. Inoltre, ultimamente Eris si sta concentrando anche su importanti progetti che non solo coinvolgono e valorizzano la danza ma vanno al di là della danza in sé. Questo è un momento di grande creatività e crescita per noi e non vedo l’ora di poter dire di più al riguardo.

Grazie al suo talento ha calcato palchi di fama internazionale ed oggi è principal dancer del Los Angeles Ballet. Lei, però, è giustamente orgogliosa dei suoi natali italiani: cosa le manca di più del nostro Paese da quando vive all’estero?
Qui a Los Angeles parlo italiano solo con Eris e per telefono con i miei familiari. Ormai molto spesso penso in inglese e mi viene quasi più facile rispondere in inglese, perché è la lingua di tutti i giorni… ma ho notato che non mi accorgo di quanto mi manchi sentire parlare italiano finché non torno in Italia. È quasi scioccante all’inizio e quasi penso: “Wow ci sono degli italiani accanto a me… ah no, è perché sono in Italia e sono tutti italiani qui!” (ride). Ovviamente mi mancano i miei genitori, i parenti e gli amici più cari, che mi hanno aiutato a diventare la persona che sono ora, che mi hanno instillato i valori che porto dentro, ai quali devo tanto, e che però sono sempre al mio fianco nonostante la lontananza.

Seppur lentamente, sembra che si intraveda una luce in fondo al tunnel in cui ci ha catapultati la pandemia negli ultimi due anni. In Italia, ma immaginiamo anche all’estero, il mondo dello spettacolo ha pagato lo scotto maggiore. Ci offre una sua riflessione in merito?
La pandemia ha segnato un cambiamento di vita per tutti e, ovviamente, noi artisti dello spettacolo dal vivo ne abbiamo pagato le conseguenze. Però il mio pensiero va soprattutto alle persone che hanno perso i propri cari e credo che una delle più importanti responsabilità che abbiamo noi ballerini, e artisti in generale, sia cercare di alleviare, seppur per un attimo, il dolore di chi soffre, distraendo per un po’ il pubblico dalle tristezze della realtà in cui stiamo vivendo. Per questo non mi sono mai abbattuta durante questo periodo e ho cercato di motivare e ispirare i miei fan, i colleghi, le future generazioni di ballerini che più di noi, maturi danzatori, hanno accusato il fatto di doversi allenare da casa, da soli, davanti ad uno schermo, senza la possibilità di potersi confrontare con gli altri e senza potersi esibire davanti a un pubblico in carne e ossa, che è la prova di crescita più importante per un giovane ballerino. Personalmente ho offerto lezioni gratis sul mio profilo Instagram, postato classi su YouTube e insegnato tantissimo. Grazie al bel tempo di Los Angeles sono riuscita a ballare 22 spettacoli all’aperto, quando nella maggior parte del resto del mondo ancora nessuno poteva esibirsi dal vivo. Tra tutte le recite cancellate e tutta la tristezza che questo virus ci ha causato, credo comunque che gli artisti diventino ancora più “artisti” nei momenti difficili: la storia ci ha insegnato che la creatività pullula nelle maggiori difficoltà e nel mio piccolo posso assolutamente confermare. L’importante è non arrendersi mai e cercare vie alternative di espressione e realizzazione personale.

Se dovesse scegliere tre aggettivi per definirsi quali sarebbero?
Positiva, sognatrice, idealista.

Crediti foto Lee Gumbs e Bryanna Bradley.

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