“Il misantropo”, al Teatro Parenti il capolavoro di Molière diretto da Andrée Ruth Shammah

Milano. Dopo avere debuttato in prima nazionale a Firenze lo scorso maggio al Teatro della Pergola, “Il misantropo” di Molière arriva al Teatro Franco Parenti con la regia di Andrée Ruth Shammah per la traduzione di Valerio Magrelli: un’edizione vivace, rispettosa del testo e delle sue intenzioni, ancora così vive.

Lo spettacolo, in scena in Sala Grande dall’8 novembre al 3 dicembre, prosegue la ricerca di Shammah su Molière nella volontà non solo di portare lui verso di noi, ma soprattutto di avvicinare noi a lui. Un omaggio a uno dei più grandi uomini di teatro di tutti i tempi.

Nel ruolo del protagonista Luca Micheletti attore, regista, cantante lirico uno dei teatranti più originali, eclettici e visionari della sua generazione.

Nel 1666 Molière debutta con il suo misantropo: una commedia amara e filosofica, anomala e profetica, secondo molti il suo capolavoro – «un classico del Novecento», afferma Cesare Garboli, «scritto tre secoli fa». Definito uno dei testi più crudeli di Molière, l’opera è uno spaccato impietoso della società barocca, nato dalla sua solitudine e dalla crisi per la censura di Don Giovanni e Tartufo, nonché dalla separazione dalla moglie Armande.

Con tutti i suoi personaggi incipriati, “indaffarati senza aver nulla da fare”, “Il misantropo” rinuncia alla comicità dirompente tipica dell’autore francese. È un lavoro totalmente “al presente”, violento, potente, perturbante. Una commedia tragica, venata di una forma di umorismo instabile e pericolante, che porta in sé, appena al di sotto della superficie comica, le vive ferite e il prezzo altissimo costato al suo autore: in essa emergono le nevrosi, i tradimenti, i dolori di un personaggio capace di trasformare tutto il proprio disagio e la propria rabbia in una formidabile macchina filosofica, esistenziale e politica, che interroga e distrugge qualunque cosa incontri nel suo percorso.
Ma questa commedia è allo stesso tempo anche il dramma di un essere inadeguato alla realtà, l’allucinata tragedia di un uomo che si scontra con il femminile. Difatti, il grande attore e registra francese Louis Jouvet diceva di questo testo che «è la storia di un uomo che vuole avere un incontro decisivo con la donna che ama e che alla fine di un’intera giornata non ci è ancora riuscito».
Il protagonista, Alceste, interpretato da Micheletti, è un giovane rabbioso di sincerità, calato in un mondo ipocrita e ciarliero, il mondo che permette il nascere di chi come Tartufo prospera in un clima di ipocrisia. Ha una sua dirittura morale, un suo rigore intransigente, pretende di dire sempre la verità, anche quando è scomoda.

Alceste è un isolato, che scava intorno a sé un abisso incolmabile, nel quale finisce con lo sprofondare anche il suo amore per Célimène, la civettuola per antonomasia, interpretata da Marina Occhionero, leggiadra e superficiale, che accetta le lusinghe di tutti. Questa “signora dei salotti” è attorniata da una corte mondana, composta da Philinte, Angelo Di Genio, Oronte, Corrado D’Elia, Basco, Andrea Soffiantini, Eliana, Maria Luisa Zaltron, Clitandro, Filippo Lai, Lacasta, Vito Vicino, Orsina, Emilia Scarpati Fanetti, Du Bois, Pietro De Pascalis, il Secondo Servitore, Matteo Delespaul, e la Guardia, Francesco Maisetti. Le scene sono di Margherita Palli, i costumi di Giovanna Buzzi, le luci di Fabrizio Ballini, le musiche di Michele Tadini, la cura del movimento è di Isa Traversi.

Il personaggio di Célimène non vuole rinunciare a niente, né all’amore esclusivo di Alceste, né al gioco seduttivo della sua schiera di pretendenti. Alceste, d’altra parte, s’impegna in una lotta che combatte nella solitudine del suo orgoglio, sorretto da una fede cieca nella bontà delle sue idee. Tappa per tappa, finisce con lo scoprire che non c’è posto per lui in quel mondo; è la fine dell’utopia della verità, il naufragio di un’idea, piuttosto che un volontario isolamento.

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