“Il concerto dei destini fragili”, l’ultimo romanzo di Maurizio De Giovanni parla a noi e di noi

Milano. La letteratura, si sa, ha un potere salvifico; consente a chi è attraversato dal dolore di prestargli ascolto, potendolo trasformare in parole. Spesso, per la comunità dei lettori, la letteratura è evasione, perché nelle pagine di un libro, specie se si tratta di un romanzo, albergano altre storie. Leggere permette di viaggiare stando fermi, permette di vivere vite diverse dalla nostra ma nelle quali, per un motivo o per l’altro, riusciamo a specchiarci, a immedesimarci.
Ne “Il concerto dei destini fragili”, pubblicato da Solferino libri e il Corriere della sera, questo discorso incontra la celebre massima di Marcel Proust allorquando afferma che “ogni lettore, quando legge, legge se stesso”, perché nel nuovo romanzo di de Giovanni leggiamo esattamente noi stessi. Le nostre paure, le angosce dettate dalla realtà spezzata che ogni giorno siamo costretti a vivere, e che in queste pagine, come in una biglia di vetro, rivediamo; ma andiamo con ordine.
Tre sono i destini fragili: il dottorino, l’avvocato e Svetlana. Tre rappresentazioni della natura umana chiamata a fare i conti con questo nostro tempo, nelle quali prontamente e senza troppi sforzi è possibile riconoscersi. Ogni grande narratore, nella trama di ciascuna sua opera, regala al lettore uno spiraglio nel quale potersi insinuare mettendosi a nudo in un non-luogo (ovvero il romanzo) privo di giudizio. Qui è possibile farlo sin dalle prime pagine, nelle quali entriamo in contatto con il dottorino e la sua bontà, la sua genuina e ideale visione della medicina; il dottorino è uno al quale la sua stessa mente, nel frastuono degli ospedali al collasso, fa risuonare come un mantra il giuramento di Ippocrate, la Costituzione per ogni medico chiamato a salvare vite umane.
Diverso è il discorso da fare per il secondo dei personaggi–tipo presentati in queste pagine, l’avvocato; l’avvocato è un tipo piuttosto snob, fiero e irrequieto, superficiale e indifferente a tutto, eccetto al ricordo del suo amore perduto, Simona. Non sa come impiegare tutto quel tempo in esubero che ora le sue giornate gli regalano. Lui che era sempre di corsa, tra tribunali e udienze, al tempo non ci faceva neanche caso. Ora si, perché costretto a guardare la vita che scorre, lenta, dalla vetrata del suo attico, con un bicchiere tra le mani e la musica seducente di John Coltrane che gli accarezza i sensi.
Infine, abbiamo Svetlana che rappresenta degnamente un’intera e troppo spesso invisibile fetta di popolazione dimenticata. Una donna di un imprecisato paese dell’Est Europa che, trasferitasi in Italia, è tenuta a fare i conti con una vita grigia e piena di sacrifici. Tuttavia, Svetlana si reputava una donna fortunata; aveva una casa, un compagno che lavorava sodo e una giovane figlia, Sonia, alla quale garantire un futuro migliore del suo. La sua condizione di donna e di madre ben presto cede il posto allo sdegno, all’umiliazione, al dubbio strisciante che si staglia nella mente di chi non si può più fidare di nessuno. Vlad, il suo compagno, nel frattempo era cambiato. La coabitazione dava segni di cedimento, acuiti dall’insoddisfazione schiacciante del lavoro che mancava. Spesso, quando Svetlana o sua figlia rincasavano, Vlad era ubriaco. Era diventato impossibile resistere in quella costrizione, in quella forzatura. “Le strade facevano paura.Ostili e deserte, lucide di pioggia e con le auto di pattuglia che procedevano lente diffondendo metallica la voce che diceva di stare in casa, di non uscire”.
“Il concerto dei destini fragili” parla a noi, a noi tutti. A noi che leggiamo e anche a noi che non leggiamo, senza differenze, proprio come questa emergenza sanitaria che non abbiamo smesso di vivere dallo scorso marzo. Parla a noi e di noi, delle nostre vite, apparentemente distanti; parla dei nostri destini che sono fragili, mai come in questo momento; ma parla anche al nostro cuore che vorrebbe tenere in vita l’anziano signore, il signor Luigi, che al dottorino lascia una traccia indelebile.
“Era diventato un’oasi nell’inferno del dolore. Le infermiere ridevano sotto i caschi protettivi, perché Luigi raccontava di conoscere i marziani, cioè tutti loro, e queste erano le storie preferite del nipote più piccolo, che si chiamava Luigino, cioè Luigi, come lui, solo più giovane”.
Il signor Luigi ce l’aveva messa tutta per non ricadere nell’abisso, era forte e attaccato alla vita. Teneramente e con un filo di voce lasciò quell’ultimo messaggio che doveva essere recapitato al piccolo destinatario.
Il nonno era solo partito con l’astronave. “Niente morte. Solo partito con l’astronave”.

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