“Campi d’ostinato amore”, l’universo paesistico di Umberto Piersanti

Milano. Evocano suggestioni le duecento pagine che compongono l’ultima raccolta poetica edita da La nave di Teseo. Nascono in terra marchigiana, sulle colline d’Urbino e delle Cesane, luoghi elettivi, esclusivi nella personale geografia amorosa di Umberto Piersanti.
Poeta di lungo corso, ha pubblicato numerose raccolte di poesie, a partire dal 1967; Piersanti è stato docente universitario e attualmente è il presidente del Centro mondiale della poesia e della cultura “Giacomo Leopardi” di Recanati. Cinque sono le sezioni che racchiudono i nuclei essenziali della sua poetica: “Il passato è una terra remota; Jacopo; In una selva separata; Vicende; L’età breve e, infine, Primavera bugiarda (Nei mesi del Covid)”.
Si susseguono volti e paesaggi, dolori e ricordi aventi una valenza mitica tra quei “greppi folti, in un’età remota, la più remota”; un ponte, la poesia che consente il dispiegarsi privilegiato della memoria sensoriale in cui è possibile (ri)trovarsi laddove si è giovani per sempre.
Lì, nelle campagne dove il poeta è stato fanciullo, ad odorare i campi sterminati “tra sentieri di rovi e spini colmi”, prende corpo e forma la parola sognando le acque chiare e i limpidi prati di una bellezza immanente, esente dal perituro destino umano.
È sulle colline d’Urbino che si esercita lo ius soli, l’unica cittadinanza possibile dove alberga sconfinato il canto del poeta. È una costellazione di visioni liriche e di incanti sommessi che annienta, pagina dopo pagina, la linea del tempo.
C’è un io-fanciullo che si scorge tra quei “volti nella mente infissi”, è un “Antico gioco di primavera” quello del poeta-ragazzo, stordito dal piacere della scoperta annidarsi dentro di lui, sempre più totalmente radicato al mondo.
“…è l’aria gonfia e azzurra,
aria di maggio,
di calendule arancioni
l’aiuola è colma,
l’uva spina è là
in fondo, i grandi
acini ramati
d’un verde profumo
intridono la rete”
(“Antico gioco di primavera”, gennaio 2019).
“Campi d’ostinato amore” è un luogo di reperti di profondità, è abisso e venuta al mondo, sogno di un’umanità estinta, ma non per questo dimenticata. Che sia la cristallizzazione di Stendhal? Quel complesso ritmico pieno di colori, di passaggi, di scatti e di distensioni dove i vari momenti si scambiano e si illuminano, perennemente.
È ritrovato senso del dolore, di un dolore muto e imperscrutabile come quello per il figlio Jacopo, “elfo inconoscibile e distante” che si scorge nei versi dell’intera sezione a lui dedicata.
“Jacopo delle corse
e dei dolori,
Jacopo del riso
e dello sconforto,
sei nella vita
quella svolta improvvisa
che non t’aspetti,
la tragica bellezza
che i tuoi giorni inchioda
al suo percorso”
(“Jacopo ormai grande”, agosto 2019).

“Un poeta – ha scritto Cesare Pavese nel suo diario, “Il mestiere di vivere” – si compiace di sprofondarsi in uno stato d’animo e se lo gode”. In queste righe, lo scrittore e poeta piemontese, faceva riferimento alla poesia in funzione evasiva, di “fuga dal tragico”.
La poesia colma le mancanze della vita, le voragini dell’animo umano, la distanza inaudita della società contemporanea in cui l’umanità è avviluppata, narcotizzata e tristemente annichilita.
A tutela di queste crepe, in un discorso squisitamente riparatorio (come l’antica arte del kintsugi insegna), è di soccorso la parola poetica, non come soluzione temporanea ed emergenziale, quanto piuttosto come pratica curativa dello sguardo, della mente e del cuore.
Il poeta interroga il verso come ad interrogare se stesso, in un continuo e vitale “gioco del rovescio”, direbbe Antonio Tabucchi, fino alla confessione che non è mai punto di arrivo.
Il poeta osserva, annusa, si immerge in stadi della memoria arcana, racchiusa nello sguardo furtivo alla cosa, al suono, al profumo, passati sotto i suoi sensi in quell’istante.
Il poeta è un Virgilio del tempo, va a zonzo come un randagio nelle stagioni della sua vita; è Enea che combatte, insiste e non desiste; è Prometeo che scorge il senso della libertà e lo dona agli uomini con la forza del fuoco.
Il poeta ha una voce, un ostinato canto; vagheggia, denuncia, dà vita ai morti e fa tacere la prepotenza dei vivi. Il poeta non cambia il mondo, lo rende magnificamente un luogo abitabile e umano in cui ogni essere vivente e non, ha diritto di vivere.
Tutto ciò evoca Umberto Piersanti con “Campi d’ostinato amore”.

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