Napoli. Dall’8 al 18 maggio, al Teatro San Ferdinando, Benedetto Casillo è l’interprete de “L’uomo dal fiore in bocca” di Luigi Pirandello, con Sara Lupoli e Vincenzo Castellone, e di “Fiori di palco” di Raffaele Viviani, Totò e Enzo Moscato nell’adattamento dello stesso Casillo per la regia di Pierpaolo Sepe.
La produzione è del Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Arteteca, Tradizione e turismo, Centro di Produzione Teatrale e Teatro Sannazaro.
Un Benedetto Casillo in camicia bianca con colletto diplomatico e maniche a sbuffo, sotto un elegante gilet nero da tight (i costumi sono di Rossella Oppedisano), compare sul proscenio a sipario chiuso dove, con ancora le luci della sala accese, dà vita al suo prologo.
In un monologo che è tutto un susseguirsi di battute e guizzi sempre eleganti e misurati, mai volgari, introduce l’azione scenica e spiega come la riflessione sulla morte non sia altro che una riflessione sulla vita stessa, su come questa rappresenti un’occasione di cui spesso non ci rendiamo neanche conto.
E di come l’accettazione dell’addio – cui nessuno di noi è mai pronto – passi necessariamente per la comprensione dello stato di grazia e comunione con il prossimo che dobbiamo imparare a vivere con gioia, come se fosse una festa, perché questo è l’unico modo per celebrare la sacralità della vita.
Casillo dà prova della sua poliedricità e capacità di passare dal registro comico, trascinante, quello conosciuto dai più, a quello serio e drammatico e, tra una risata e l’altra, esprime con grande semplicità e linearità dei concetti profondi sul senso della morte e quindi della vita, perché l’una è indissolubilmente legata all’altra.
Inizia così in una scenografia scarna, costituita solo da un maxi pannello retroilluminato, di grande effetto (le scene sono di Francesco Ghisu), a recitare “‘A Livella” di Totò.
Per metà spettacolo Casillo è solo, accompagnato da una sedia di legno al centro della scena, dove ricorda tra le altre cose il suo incontro con Enzo Moscato, di come quest’ultimo fosse andato a vederlo a teatro e poi gli avesse chiesto di partecipare a un suo spettacolo e di come lui non si sentisse pronto nonostante l’insistenza di Moscato.
Nella seconda parte, dopo un breve intervallo, si assiste al cambio di scena: è l’esterno di un caffè di una stazione ferroviaria qualsiasi, attraversata da un binario in primo piano.
Qui i due protagonisti del monologo pirandelliano iniziano a parlare a tarda notte, per aver perso il treno per un minuto, si dilungano sugli acquisti cui le mogli li avevano incaricati, dell’arte di confezionare i pacchetti da parte dei commessi.
C’é in particolare Casillo, ora perfettamente vestito nel suo abito e cappotto scuro, che parla in continuazione, mentre l’altro si inserisce raramente nel discorso con battute scontate, quindi anche in questo caso l’apparente dialogo in realtà si riduce a un monologo.
Attraverso il discorso mano a mano emerge il dramma che il primo sta vivendo, ossia l’avere scoperto di essere affetto da un epitelioma, un tumore della bocca (è il cosiddetto fiore da cui il titolo), destinato a ucciderlo in pochi mesi.
E proprio la sua condizione di precarietà lo porta a osservare la vita degli altri, degli sconosciuti, in ogni minimo dettaglio, cercando di immaginarla, perché così riesce a non ricordare il poco tempo che gli resta.
Vorrebbe però che lo sconosciuto gli rivolgesse un pensiero uscendo dalla stazione, nel cogliere un cespuglio d’erba, per poi contarli per lui, perché i suoi giorni di vita saranno tanti quanti i fili che riuscirà a contare.
C’è una forte caratterizzazione e personalizzazione in questo testo di Pirandello, a iniziare dalla sostituzione di alcune parole con quelle napoletane, fino alla gestualità e all’interpretazione assolutamente personale.
Benedetto Casillo non sa solo far ridere e di gusto ma anche commuovere con grande grazia, cui contribuisce la danza di Sara Lupoli che interpreta la disperazione della moglie dell’uomo dal fiore in bocca, mentre la neve cade.