Artisti si nasce o si diventa? Il punto di vista del Professor Saverio Simi de Burgis

Venezia. È un piacere incontrare Saverio Simi de Burgis, critico e storico dell’arte, docente di Storia dell’Arte Contemporanea e di Storia e Metodologia della Critica d’Arte all’Accademia di Belle Arti di Venezia.
Ho avuto il privilegio di conoscerlo alcuni anni fa, in quanto abbiamo condiviso una lunga vicenda inerente l’inquadramento professionale delle docenze del comparto dell’Alta Formazione Artistica e Musicale (AFAM), a seguito della Riforma della Legge n. 508 del 1999, che include le Accademie di Belle Arti e i Conservatori di Musica sotto l’egida del Ministero dell’Università e della Ricerca.
Saverio Simi de Burgis ha pubblicato numerosi saggi di storia e critica d’arte in riviste universitarie specialistiche alla disciplina e in altre, di carattere più divulgativo, ha presentato in catalogo varie mostre di artisti contemporanei, ha tenuto inoltre conferenze di storia dell’arte in Italia e all’estero.
Membro dell’A.I.C.A. (Associazione Internazionale Critici d’Arte di Parigi e Roma), dal 1998 è iscritto all’Albo dei consulenti tecnici d’ufficio (CTU) presso il Tribunale Civile e Penale di Venezia, in qualità d’esperto in storia dell’arte. Come critico ha inoltre curato diverse mostre d’arte contemporanea e ha partecipato alla realizzazione di eventi artistici sia in Italia che all’estero in particolar modo in Polonia, Svezia, Spagna, Grecia, Regno Unito, Cina, Cuba, Stati Uniti, Belgio, Austria, Tasmania e Norvegia.

Insomma, Prof. De Burgis, una instancabile attività di formazione, didattica ma anche creazione, promozione, comunicazione. L’Accademia di Belle Arti conserva certamente la sua identità storica e la tradizione consolidata nel tempo, ma si apre, attraverso nuovi modelli formativi, all’interno di parametri di tipo universitario, alla cultura della ricerca, della programmazione, della sperimentazione, della divulgazione. Cosa si intende oggi per trasmissione dei saperi nelle discipline artistiche?

Buongiorno Rossella Vendemia; sono io che ringrazio te per questa occasione, anche perché da anni condividiamo la giusta causa del riassetto della docenza nelle Accademie di Belle Arti e nei Conservatori di Musica e speriamo davvero di essere giunti alla conclusione di questa assurda vicenda che si protrae da così tanti anni. Per quanto riguarda la prima domanda che mi poni, programmazione, sperimentazione, divulgazione, trasmissione dei saperi nelle Accademie, che ovviamente mi sento maggiormente di rappresentare, direi che è una domanda complessa perché comprende peculiarità che tali Istituzioni dovrebbero perseguire come finalità pienamente assodate riconosciute. Tu sai che sono un teorico e mi sono formato all’Università e non all’Accademia di Belle Arti e quindi ho dei parametri un po’ divergenti rispetto a quelli del mondo in cui poi mi sono proiettato ormai da tanti anni nella docenza e nello studio dove ho poi maturato una mia esperienza.
Mi sono, quindi, calato in questa dimensione che mi attraeva per la sua autentica prerogativa creativa ma che non conoscevo abbastanza bene perché, nella mia formazione, Liceo classico e quindi Università, avevo assorbito una impostazione metodologica rivolta a separare, abbastanza nettamente, la conoscenza teorica da quella pratica; il fatto di trasmettere una conoscenza dell’arte, insegnare arte non è effettivamente chiarissimo, qualcosa di oggettivamente condivisibile, perché poi ogni artista ha un suo mondo e un suo modo di trasmettere questo sapere. Credo, tuttavia, che la mia esperienza all’Università assieme al fatto di aver avuto un padre poeta che mi ha “allenato” a condividere una creatività basata essenzialmente sull’essenza delle parole che alimentano le immagini e viceversa, mi abbia consentito di comprendere meglio le peculiarità dell’Accademia, trovando delle strade analoghe anche agli studi condotti dentro e con l’Università. Nello stesso tempo questa è un’esperienza che, credo, sia cresciuta nel tempo. Inserendomi all’interno dell’Accademia, ho acquisito anche dei dati di trasmissibilità di tali concezioni in una tensione proiettata a un costante totale avvicinamento al mondo del ‘fare arte’. Ho sempre avvertito la necessità che, per parlare adeguatamente di arte, fosse necessario studiare sì sui libri, ma anche rimaneva fondamentale una verifica diretta di quanto acquisito con l’”opera” e ciò si completava nel rapporto diretto frequentando gli artisti e i loro studi, le mostre, nel visitare le città, luoghi spesso rimasti lontani nel tempo per quanto riguarda le sedimentazioni storiche riscontrabile nei palinsesti architettonici ad esempio, non solo italiani, ma dell’intero mondo, cercando di attuare un processo di immedesimazione e collegare questi mondi in una sorta di storia dell’arte comparata, di confronto tra realtà diverse a livello spazio-temporale. Credo che questo faccia parte di un metodo di apprendimento intuitivo e di assimilazione associativa e analogica di dati che ciascun artista attua nella propria indagine a prescindere dall’epoca in cui egli vive; e ciò avviene anche nel nostro contemporaneo. Questo dovremmo, credo, cercare di trasmetterlo anche ai nostri studenti trasferendo queste nostre istanze aperte, che rimangono tali soprattutto perché, a volte, ci addentriamo in territori totalmente sconosciuti che rimangono ancora senza risposta; dobbiamo stimolare noi stessi e ovviamente la creatività dei nostri potenziali artisti in erba, ad agire, “al fare”. Forse questo è un tratto in comune anche con il tuo mondo, nell’apprendimento della pratica della musica: tutto sommato anche nella ripetizione “tradizionale” di moduli, nel cercare la perfezione di quella resa, di una sempre più corretta interpretazione di brani musicali, si cerca di apportare delle variazioni con novità interpretative, che costituiscono quello scarto insito nel vostro tipo di studio disciplinare. È un discorso complesso, anche perché non è sostenuto da nessuna regola, se non da quella di immedesimarsi nell’esecuzione di un brano cercando di rifarsi alle precise intenzioni di quel determinato autore. Ma di questo, cara Rossella, sarebbe più opportuno che ce ne parlassi tu con la specifica competenza che hai maturato sul campo come pianista di successo. Comunque, credo, che i docenti delle Accademie e dei Conservatori, siano vicini alle conoscenze scientifiche più di quello che si possa credere, anche se con loro specificità e in tal senso possono comunicare nella didattica, con gli studenti, immedesimandosi in questo processo. Tale consapevolezza una volta riconosciuta a pari titolo dai colleghi dell’Università che ritengono da sempre la musica e l’arte fondamentali strumenti di conoscenza ma anche di ricerca, dovrebbe consentire finalmente il lungamente tanto atteso pieno accreditamento nell’ambito universitario di Accademie e Conservatori.

È interessante ripercorrere alcune sue progettualità incentrate sul coinvolgimento di docenti e studenti dell’Accademia, in una sorta di circolo virtuoso in cui la didattica si integra con la ricerca, la realizzazione di produzione, l’innovazione. Ci parli di “Controluce”, l’evento concepito nell’ambito della 51. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia e inserito nel programma didattico sviluppato dalla Biennale all’interno dei progetti rivolti alle istituzioni presenti in città come appunto l’Accademia di Belle Arti.

Nel 2005 curai questo evento collaterale alla 51. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, con direttori del settore due critiche d’arte spagnole – per la prima volta, nella storia della Biennale, due donne -, Maria de Coral e Rosa Martinez. Grazie all’Accademia e al Direttore di allora, Riccardo Rabagliati, un fisico del CNR che venne a insegnare in Accademia alcune discipline del comparto dell’informatica e della multimedialità, una mente illuminante per il rapporto oggettivo di valutazione degli aspetti artistici all’interno dell’Accademia, pur così distanti dalla sua formazione. Fu lui che mi assegnò questo progetto. Durante il periodo estivo, con la Biennale, organizzai un calendario di inviti agli studenti dell’Accademia assieme ai loro docenti delle discipline laboratoriali, con selezionate esposizioni di lavori da loro realizzati presentati in un particolare ambiente del Padiglione Italia, alle spalle del Giardino delle Sculture, ideato nel 1968 dall’architetto Carlo Scarpa, dove, fra l’altro, furono realizzate alcune esposizioni di artisti, già docenti all’Accademia, dalla fine degli anni ’60 ai primi anni ‘80, come Alberto Viani. Per tutta l’estate del 2005, un giorno alla settimana e per tutte le settimane di durata dell’esposizione lagunare, da giugno a novembre, organizzai questi incontri che consistevano in un confronto aperto all’esterno di quanto poteva maturare nella realizzazione di opere da parte degli studenti nel loro rapporto con i docenti di riferimento nell’ambito soprattutto degli atelier delle discipline di indirizzo; un lavoro impegnativo, anche solo pensando alla necessaria calendarizzazione in modo da coinvolgere in tempo utile pure il pubblico in visita alla Biennale. Si è trattato di un’operazione importante perché era una delle prime volte in cui l’Accademia di Belle Arti di Venezia ristabiliva dei rapporti progettuali con la Biennale. Anche perché la Biennale, nel 1895, nasceva con il supporto dei docenti che insegnavano in quel periodo all’Accademia. E l’Accademia di Belle Arti di Venezia era già sorta nel 1750 con direttore Giambattista Piazzetta e presidente Giambattista Tiepolo, poi morto a Madrid, alla corte del re di Spagna Carlo III di Borbone, nel 1770. Poi i rapporti fra le due Istituzioni si erano un po’ affievoliti, se non interrotti, fino a quando riuscimmo a riproporci con “Controluce” come evento collaterale della Biennale di quell’anno, con il logo della Biennale, dentro gli spazi della Biennale. Coordinare questi incontri con gli studenti, i loro docenti e il pubblico è stato molto interessante perché si poteva avere la possibilità di entrare nella prassi laboratoriale dell’atelier, in tutto ciò che praticamente veniva insegnato e assimilato affinché poi gli studenti potessero tradurlo nei loro progetti, nelle loro opere. Ciò ha costituito l’occasione di ritrovarsi dentro una pratica creativa così come nasce e si sviluppa in un’Accademia, nel costante rapporto di scambi complementari e biunivoci tra la didattica e la ricerca. Ciò avviene pure all’Università anche se con specificità differenti: è normale che qui i docenti riportino come riferimenti di analisi e di metodo i propri studi, le proprie ricerche. Ciò vale anche per le Accademie e i Conservatori di Musica i cui parametri di ricerca non possono che riferirsi specificamente al settore artistico e musicale. Come testimonianza di questo ormai storico evento rimane la pubblicazione, da me curata e edita da Marsilio nel 2006, con l’elenco della partecipazione degli studenti e dei docenti dell’Accademia di allora, l’introduzione del presidente della Biennale Davide Croff e del direttore dell’Accademia, sempre di quegli anni, Riccardo Rabagliati.

Particolarmente significativa anche la mostra “’900 all’Accademia. Opere per il Nuovo Museo”, in coincidenza con l’apertura a Villa Manin della nuova sede staccata dell’Accademia di Belle Arti di Venezia.
Una mostra consistente nell’esposizione di lavori realizzati dai docenti che hanno prestato, durante il corso degli anni, la propria opera di insegnamento presso l’Accademia: una sorta di viaggio nella memoria storica dell’Istituzione da far conoscere agli studenti, insomma un’istantanea sul passato alla ricerca di nuova linfa per un più consapevole futuro.

Il progetto “‘900 all’Accademia. Opere per il Nuovo Museo” venne alla luce nel 2000, per il 250° anniversario della nascita dell’antica Istituzione veneziana e in concomitanza con il trasferimento dell’Accademia di Belle Arti dalla sede storica – dove ci sono ancora le gallerie che ancora oggi si chiamano Gallerie dell’Accademia – alla nuova sede degli Incurabili, sulle Zattere, praticamente a circa 300 metri di distanza dalla sede storica. Era un evento importante perché si lasciava definitivamente la parte collegata all’antica storia, all’antica collezione dell’Accademia, che inizialmente comprendeva anche il Museo, che, come raccolta di prestigiose opere della scuola veneta, secondo le disposizioni originarie, doveva svolgere il ruolo, fondamentale a quei tempi, di supporto alla didattica. Poi il Museo si ingrandì sempre di più grazie a ulteriori acquisizioni e donazioni, tanto che poi alla fine dell’800, esattamente nel 1882, si distaccò nelle funzioni dal controllo diretto assunto dai docenti, soprattutto di pittura, di allora. Sorsero così le prime Soprintendenze, fortemente volute da Cavalcaselle, già studente dell’Accademia veneziana, pioniere degli storici dell’arte in Italia. Giusto però per evidenziare questo ulteriore passaggio dalla sede storica a quella nuova, aperta definitivamente all’utenza nel 2004, si decise, su un’idea maturata da Giancarlo Franco Tramontin, in Accademia già titolare di scultura fino al 1998, attraverso un’associazione nata all’interno della stessa Istituzione e di cui facevo parte anch’io, di dar vita a un nuovo Museo, una collezione del ‘900, basato sostanzialmente sulle donazioni di opere degli artisti che avevano insegnato in Accademia dal 1927, da quando cioè Virgilio Guidi arrivò a Venezia da Roma, segnando un cambiamento abbastanza netto nella poetica e nello stesso insegnamento precedentemente adottato in un clima veneziano che aveva continuato, con il suo pur valido predecessore Ettore Tito, una certa tradizione ottocentesca. Quindi procedemmo con un aggiornamento, coinvolgendo i docenti che avevano insegnato in Accademia e nel frattempo erano andati in pensione, evitando di creare discriminazioni tra loro e chi era ancora in servizio, anzi ripromettendoci di richiedere a questi ultimi una loro opera nel momento in cui avessero lasciato l’incarico per quiescenza o a seguito di trasferimento in altra Accademia. A seguito delle donazioni provenienti dagli artisti/docenti, o, se deceduti, dai loro famigliari o da generosi collezionisti, si creò una discreta raccolta che a tutt’oggi è allestita nell’attuale sede dove c’è ora la direzione, di fatto creando se non un Museo vero e proprio, un’interessante collezione che sicuramente ha incrementato il già notevole patrimonio storico della nostra Istituzione. I fondi stanziati per i 250 anni della nascita dell’Accademia furono utilizzati per organizzare due esposizioni della raccolta nel 2001, la prima presso le Gallerie dell’Accademia, la seconda allestita negli spazi di villa Manin di Passariano, in provincia di Udine. Per le rispettive mostre pubblicammo due cataloghi dell’editore Marsilio di Venezia, il secondo con l’integrazione di ulteriori acquisizioni e nell’occasione del centenario della nascita di Mario Deluigi, già docente all’Accademia, di scultura, quale assistente di Arturo Martini negli anni ’40, quindi di scenografia per poi passare all’IUAV.

“nudisegni”, 47 giovani riflettono sul tema del disegno, presso la Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia: ancora una proposta focalizzata sui giovani artisti e sul valore fondamentale del disegno “puro” come espressione, disciplina, strumento del fare arte.

In questo progetto, ero Consigliere di Amministrazione della Fondazione Bevilacqua La Masa, una struttura molto importante a Venezia, quasi coeva alla Biennale, di poco successiva come nascita. La Fondazione tuttora ha come scopo statutario quello di aiutare i giovani artisti “ai quali è interdetto l’ingresso alle grandi mostre”. Ebbi così l’idea di coinvolgere al progetto l’Accademia di Belle Arti, l’Istituto Universitario di Architettura, IUAV, nato da un ramo dell’Accademia negli anni ’20 del Novecento che praticamente, nella sua ideazione, mirava a unire i saperi scientifici a quelli umanistici e artistici, e la Facoltà di Design e Arti, nata intorno agli anni ‘90 come secondo indirizzo del suddetto Istituto Universitario di Architettura, Facoltà di Design e Arti che in fondo aveva, però, un po’ le stesse finalità dell’Accademia, creando una sorta di clone degli insegnamenti, soprattutto di indirizzo, come pittura, scenografia, scultura e decorazione. Personalmente avvertivo che, internamente alla facoltà di Architettura, in concomitanza con l’eccessivo utilizzo del computer, si evidenziava la necessità di portare avanti un’attenzione più specifica al disegno, che rimane base essenziale della ricerca artistica. Il disegno è la prima palestra utile con cui ci si confronta nella capacità di progettare un’opera, tuttavia artisticamente può assumere rilevanza anche come linguaggio autonomo. Ciò può ritenersi valido anche nel settore della progettazione architettonica, basti pensare al riguardo, al caso straordinario di Carlo Scarpa che aveva studiato all’Accademia e sapeva concepire le sue splendide architetture grazie all’invenzione a mano libera del disegno. Dal momento che avvertivo che c’era questa peculiarità positiva dell’Accademia rispetto agli altri due indirizzi universitari, pensai di avviare un confronto delle tre specificità con una mostra dei lavori degli studenti coordinati dai docenti delle varie scuole; per l’Accademia di Belle Arti coinvolsi la Prof.ssa Annalisa Tornabene di anatomia e disegno che poi curò l’esposizione nella sua totalità, per l’Istituto Universitario di Architettura, IUAV, il Prof. Fiorenzo Bertan e per la facoltà di Design e Arti, la Prof.ssa Marcela Cernadas, artista argentina. Sortì una bella mostra con tre realtà e tipi di docenze in parte divergenti ma complementari, per evidenziare le differenti declinazioni e per stabilire un rapporto di reciprocità e di confronto tra le Istituzioni coinvolte, alla fine utile per una comune crescita.

Presso l’Atelier 3 + 10 di Mestre lei ha curato la mostra di sculture in terracotta “Cotte crude terre”, con opere di tredici giovani artisti provenienti da paesi molto diversi: multiculturalità come valore aggiunto, un vitale scambio di esperienze.

Per quanto riguarda Atelier 3 + 10 di Mestre, è una realtà interessante che si è creata negli ultimi anni grazie all’iniziativa di due studenti, Zhongqi Geng e Marija Markovic che hanno concluso il loro iter accademico all’Accademia di Belle Arti con indirizzo ‘Scultura’ e quindi hanno avviato un grande loft a Mestre come centro artistico multifunzionale, a 15 minuti circa dal centro storico di Venezia. È una realtà interessante, una grande fabbrica, una fucina gestita con due principali finalità: da una parte dando la possibilità di far lavorare giovani intenzionati a proseguire il loro percorso di studio negli stand predisposti in questo luogo, precedentemente adibito a funzioni industriali; dall’altra con la possibilità di organizzare, nello spazioso vano centrale, delle esposizioni, alcune delle quali sono state curate da me. Ho allestito molte mostre per loro, ultimamente insieme soprattutto a Maria Markovich, rimasta ora sola a gestire lo spazio dopo il rientro in Cina di Zhongqi Geng, artista e scultrice di origine serba, instancabile organizzatrice di iniziative culturali in questa bella sede, faticando non poco per la scarsità, se non per l’assenza totale di stanziamenti di risorse economiche dagli Enti locali a supporto delle pur valide iniziative per il territorio mestrino e veneziano.
Ho ritenuto opportuno offrire un sostegno attivo e fattivo frequentando questo spazio che mi ha sempre coinvolto per le sue intrinseche potenzialità, iniziando una collaborazione con giovani artisti, provenienti in particolare dall’Accademia. Tra le varie mostre che ho realizzato – come giustamente tu hai individuato – vi è quella sulla terracotta, con particolare interesse a quella refrattaria. Intitolai la mostra “Cotte crude terre”. Amo molto questa materia, perché costituisce un mondo, quello dell’argilla, che unisce luoghi lontani ed è visceralmente ravvisabile all’interno di alcune peculiari poetiche di artisti contemporanei, come, ad esempio, Arturo Martini, artista strepitoso, forse il più importante scultore del Novecento italiano, che per un periodo, negli anni ’40, insegnò all’Accademia di Venezia. Ho avuto, inoltre, negli anni passati la fortuna di avere avuto colleghi artisti che si sono interessati a questo tipo di scultura, soprattutto nell’ambito dell’insegnamento di plastica ornamentale; uno di questi è stato l’artista/poeta Giovanni Scardovi, originario di Faenza, che per un certo periodo ha insegnato a Venezia e mi ha portato a conoscere prestigiosi artisti che ancora oggi lavorano, da scultori, queste “terre” che loro stessi amano manipolare creativamente. A Ferrara ho incontrato Gianni Guidi, Sergio Zanni, Maurizio Bonora ai quali si aggiungono, lì residenti e attivi da anni, gli iraniani Amir Sharif e Sima Shafti; in Romagna troviamo appunto Giovanni Scardovi, la fiorentina Ilaria Ciardi, purtroppo poi prematuramente scomparsa, e Sergio Monari, tutti e tre già docenti all’Accademia di belle arti di Bologna; nel Veneto con Ampelio Zappalorto e Sara Marchetto, artisti con studio a Vittorio Veneto, che per l’occasione gravitavano con interessi sull’argilla di Nove, vicino a Bassano; infine i milanesi Albertini e Moioli, docenti di scultura a Brera, Milano, ma per anni presenti nella provincia savonese di Albissola, anche questo noto centro per la ceramica. Una realtà interessante, curiosa, pregnante che collega disparati luoghi un po’ in tutta la penisola italiana: ci sono artisti che coltivano questa materia anche in altre aree geografiche: non solo Albissola o Nove, ma anche, ad esempio, Mondovì in Piemonte, Montelupo in Toscana, Amalfi e Vietri in Campania, Caltagirone in Sicilia, Galatina in Puglia. Così ho realizzato una prima per me interessante mostra, coinvolgendo artisti noti in tale ricerca, ma anche, come rilevavi tu, giovani che, in questo caso, provengono dalla Serbia, come Marija Markovic da Belgrado, Zhongqi Geng dalla Cina che non può non richiamarci alla memoria la grande tradizione nel settore di questo Paese, basti pensare all’ancora attualissimo esercito dei guerrieri di terracotta di Xian. Infine Valter Cerneka dalla Croazia e il più giovane italiano Lorenzo Rumonato.

Insomma una mole straordinaria di impegno e dedizione nella docenza e in attività di produzione, scaturite dall’azione didattica e formativa.
Qual è il ruolo oggi, nel mondo contemporaneo, dell’Accademia di Belle Arti e più in generale delle Istituzioni di Alta Formazione Artistica?

Sì Rossella, un lavoro notevole, sostanzioso che effettivamente non mi sembra neanche di aver svolto, perché quando ci metti l’amore, la passione, la dedizione, tutto avviene fluidamente, quasi naturalmente. Credo che questo accada a tutti coloro che abbiano la fortuna di realizzare ciò che si sentono maggiormente di voler fare e di condividere nella vita portando avanti, alla fine, il proprio ruolo con soddisfazione degli effettivi risultati conseguiti. Giustamente rimane come qualcosa di assolutamente auspicabile nelle nostre funzioni, quando accade che l’azione didattica e formativa coincida con quella che è rientrante a pieno titolo nella ricerca. È necessario che sussista tra queste azioni una complementare reciprocità per procedere in una più motivante condivisione con i nostri studenti che hanno scelto questo indirizzo di studi, sia di impronta artistica, sia, credo, musicale. Il ruolo, oggi, delle Accademie di Belle Arti, credo che rimanga un ruolo importante, un ruolo che va però lasciato ‘aperto’, libero da configurazioni, appunto, accademiche troppo restrittive; nel senso che l’Accademia, quella per intenderci della riforma napoleonica sostanzialmente di impostazione neoclassica, è stata importante anche come regola, modello, punto d’indirizzo per quanto riguarda certe discipline, quali il disegno, l’anatomia. Ciò ha coinvolto certamente anche la storia dell’arte, ma sono concezioni che per molti versi non valgono più in termini così radicali. Allo stato attuale in cui anche giustamente ci siamo spinti ad aggiornarci, alla fine, sul “nostro” contemporaneo, credo che la storia dell’arte, debba tornare a svolgere una funzione di stimolo soprattutto nella sfera delle nostre Istituzioni e che, come finalità prioritaria, debba orientarsi verso un’ampia condivisione creativa e, in tal senso, non dovrebbe assumere una connotazione troppo filologica, magari per alcuni necessariamente protesa verso dogmatiche interpretazioni esegetiche, ma per altri fonte di dubbi e di continue rivisitazioni, aspetti che comunque fondamentalmente non interessano chi vuole sviluppare una sua esperienza sul fare oggi arte. Anche però l’appiattimento eccessivo e rivolto esclusivamente alle tendenze attuali, può costituire un limite, in quanto sussiste il rischio di assecondare, in nome della novità a oltranza, alla fine un evidente epigonismo, una stanca e sterile ripetizione di moduli avanguardistici, vecchi ormai di più di cento anni. Ciò sicuramente non costituisce alcuna utilità a incentivare una realmente originale e autentica spinta motivazionale valida in tal senso. Picasso diceva che “essere originale significa ritrovare la propria origine”. Credo che nelle Accademie, la storia dell’arte debba quindi stimolare una creatività autonoma e indipendente nello studente. E in tal senso deve rimanere aperta a tutto campo, spaziare cioè in ambiti geografici e temporali differenti, assecondando un’assimilazione curiosa e intuitiva. Al di fuori di ripetitivi schemi diacronici e dogmaticamente pseudo-evolutivi, in un approccio, invece, comparativo e sincronico dei molteplici aspetti di una storia dell’arte che assuma connotazioni anche antropologiche. Faccio un esempio più concreto: tengo un corso di storia dell’arte contemporanea. In effetti la denominazione della disciplina è un ossimoro in termini, perché o tracci un’indagine storica sull’arte, oppure ti occupi della sua contemporaneità che non è ancora storicizzabile se offri un’informazione sull’immediato presente. Il presente attuale dell’artista, in realtà, è importante ma è costituito anche di passato e anche va considerato in proiezione a un futuro, che non può appiattirsi a qualche cosa che è già definito e direi etichettato come un prodotto collaudato e garantito. Può esserlo, ma allora in tal senso appartiene già al passato. Se non si riesce a stabilire una connessione costantemente aperta anche nelle riprese di aspetti lontani nel tempo o in ambiti culturali geograficamente distanti e poco conosciuti nei loro sviluppi, per appiattarsi nei limiti ristretti di ciò che appare più immediato e attuale, può esserci il reale rischio di creare dei vuoti cloni; bisognerebbe quindi lasciare la libertà e l’indipendenza all’artista in erba di portare avanti la propria ricerca, pur in una traccia segnata che si basi sostanzialmente su avvalorati studi e collaudate esperienze. Nelle Accademie, ciascuno studente, negli interessi e nelle aspettative, è diverso dall’altro. In questo senso, direi che diventa prioritario e fondamentale stabilire questa prerogativa della didattica aperta a una costante verifica anche interattiva con gli studenti, per assecondare un percorso di interessi stimolanti e motivanti per una comune crescita condivisa tra docenti e gli stessi studenti.

C’è stata, forse, nel recente passato, una sorta di dicotomia tra l’educazione al sapere e la pratica creativa. Ora il termine ‘Accademia’ sembra aver riconquistato l’accezione d’avanguardia, attraverso un’offerta formativa valida non solo sotto l’aspetto pratico, ma anche sotto quello teorico – scientifico, portatrice di una sintesi felice tra ‘scuola’ e arte, tradizione e sperimentazione, formazione e ricerca. Si potrebbe affermare che finalmente le Accademie di Belle Arti hanno raggiunto davvero lo ‘status’ universitario?

Sì, in effetti è vero che c’è stata e in parte sussiste ancora come una dicotomia tra l’educare al sapere e la messa in pratica del sapere stesso. È anche vero che parlando delle nostre Istituzioni, nelle accademie, dagli anni ’60-’70, si è insistito molto su un appiattimento culturale rappresentato dalle avanguardie storiche, come se l’avanguardia costituisse il punto di partenza imprescindibile per l’insegnamento artistico aperto prevalentemente alla sperimentazione, quasi volendo rimuovere tutto ciò che i futuristi avevano già classificato negativamente come passatista, rappresentato dalla cultura del passato e della tradizione. Credo che effettivamente la sperimentazione sia qualcosa di valido per una condivisa pratica creativa e artistica negli indispensabili collegamenti con le nuove tecnologie. Nello stesso tempo non ci si può appiattire troppo su un’avanguardia che nega a priori l’arte del passato. Anche perché gli artisti protagonisti delle avanguardie storiche, conoscevano molto bene tutto ciò che li avevano preceduti. Puoi negare o meno con maggiore convinzione qualcosa solo se già conosci bene quello che è avvenuto prima di te.
Certamente degli artisti potenziali, come possono essere considerati gli studenti iscritti in un’Accademia, dovrebbero essere proiettati in un futuro nella loro ricerca che, per quanto riguarda gli artisti, non trova sempre terra fertile per una loro collocazione stabile e precisa, ma può trovare utili declinazioni nella necessità di individuare ulteriori sbocchi professionali.
In tal senso deve disporre di una cultura ampia senza concessione ai luoghi comuni, duttile e specialistica allo stesso tempo, per motivare adeguate scelte più confacenti alle sue inclinazioni, soprattutto se decide di continuare a dedicarsi a questo genere di interessi.
Direi quindi non avanguardia a oltranza. Nella cosiddetta “tradizione”, infatti, sussistono degli scarti nuovi su ciò che si tramanda perché la tradizione in sé non è sempre e totalmente anacronistica, ma può presentare, pur nella ripresa di certi moduli nel passato, delle risultanze che effettivamente offrono delle indicazioni nuove. Così come si può ravvisare, ad esempio, nella tradizione bizantina che continuava gli stessi schemi rappresentativi per secoli, vedi la scuola delle icone russe di Novgorod o di Mosca, ignorando le fasi storico-artistiche nostrane del Rinascimento, del Barocco, dell’arte Rococò, perpetuando moduli iconografici che subivano sempre e a volte impercettibili variazioni che pure facevano la differenza, fino a costituire ancora un modello, perlomeno nell’essenziale “scarnificazione” geometrica, per i costruttivisti russi del primo ‘900 come El Lissitskj e, alla fine, raggiungendo il nichilismo suprematista di Malevic del celebre “quadrato nero su fondo bianco”. È così, ad esempio, che può anche intendersi la tradizione.
Tornando alla tua domanda, credo che le Accademie abbiano raggiunto lo ‘status universitario’ da tempo, indiscutibilmente da quando è stata approvata la legge di Riforma del 1999, grazie anche al lavoro di tutti noi all’interno di queste istituzioni che abbiamo comunque contribuito a mantenere salda l’identità di Accademie e Conservatori, evidente sin dalla loro origine. Da quella legge sono trascorsi più di vent’anni e direi che sarebbe davvero maturato il tempo per un pieno riconoscimento dell’assetto universitario del corpo docente e dei titoli accademici con i quali terminano gli studi gli iscritti a tali Istituzioni, al momento equipollenti a quelli universitari. Anche se con peculiarità proprie, sia nella didattica sia nella ricerca, le nostre storiche Istituzioni devono completare il loro iter di totale adeguamento alle altre Università italiane, così come è avvenuto da tempo nelle omologhe Istituzioni europee.

Prof. De Burgis, ma in definitiva ‘Artisti si nasce o si diventa’? Lei se lo è chiesto nel contributo inserito nell’Annuario dell’Accademia di Venezia presso cui è docente dal 1985. Siamo davvero davanti ad un ossimoro?

‘Artisti si nasce o si diventa’? Questa domanda me la sono posta più volte anch’io, tanto che riprendo la questione in un saggio da me scritto qualche anno fa. Per me era un pretesto per parlare della didattica e della ricerca, che, come hai avuto modo di notare, è un tema a me molto caro, da un punto di vista teorico ma anche “pratico”. Da quando sono entrato a far parte del corpo docente in Accademia, ho sempre seguito con grande piacere, il lavoro dei colleghi di laboratorio, inserendomi, con garbo e una confidenziale reciprocità di intenti, nei loro atelier per cercare di comprendere il loro modo di fare docenza, assolutamente, credo, qui da condividere. A volte ho richiesto la loro partecipazione alle mie lezioni teoriche. È chiaro che va salvaguardata l’autonomia di ciascun docente, ovviamente anche quella del teorico che sicuramente conosce meglio, per sua formazione, l’ambito prettamente universitario.
In merito all’ossimoro, la contrapposizione in termini, a livello metaforico, avveniva più in merito al mio specifico insegnamento di storia dell’arte contemporanea, nel senso che, come dicevo prima, o sei storico o sei, appunto, “contemporaneo”. Ripeto, nelle Accademie è giusto e opportuno puntare maggiormente sull’attualità perché è lì che poi gli studenti dovranno misurarsi, appena terminati gli studi, tuttavia bisogna avere una conoscenza rivolta anche al passato e, di conseguenza, a ciò che si potrebbe prefigurare nel futuro. In tal senso avevo sollevato la questione come una provocazione, in relazione alla mia disciplina d’insegnamento. Nello specifico dell’altro corso da me tenuto di Storia e Metodologia della Critica d’Arte, le argomentazioni sono un po’diverse anche perché non enunciate da due termini antitetici e contrapposti fra loro. Certamente un’ulteriore considerazione da fare è che la storia dell’arte può essere anche critica ma non solo nella contemporaneità e nel presente, bensì anche nel passato; ci sono molti artisti che vengono rivalutati col senno di poi, e ci sono tante rivisitazioni storiche che possono essere ridiscusse; quindi la critica aiuta, in questo senso, a una rivisitazione di concezioni che venivano date per certe e assodate nel passato. Per di più effettivamente la contemporaneità è sempre esistita: anche Tiepolo era contemporaneo di Piazzetta. Ognuno è contemporaneo al proprio tempo, inoltre, però, può essere anche riesumato in un tempo successivo o futuro, oppure può cadere, per una serie di motivi, nell’oblio. In sostanza gli artisti, anche da morti, sono soggetti ad alterne fortune critiche. Alla fin fine credo che artisti si possa nascere, diciamo che puoi assolutamente venire al mondo con questa inclinazione, ma credo anche che puoi diventarlo nel tempo, se adeguatamente educato all’arte o se scegli nel tuo iter di studi di dedicarti con anima e corpo a tali approfondimenti, ma anche da autodidatta, applicandoti con ferrea volontà, come, ad esempio, è avvenuto nel caso di Paul Cézanne durante la sua esistenza, assolutamente determinato a diventare tale. Beuys affermava che “ogni uomo è un artista”, Andy Warhol era convinto che “nel futuro ognuno sarà famoso al mondo per 15 minuti”. L’arte e gli artisti possono ancora trovarsi al centro di una oscillante convezione culturale o sociale, non è definito con esattezza il suo ruolo. Una cosa tuttavia certa, nel generale contesto in cui ci possiamo confrontare, è che le Accademie sono da secoli i luoghi deputati all’alta formazione dei futuri artisti, e, in tal senso, non possono che raggiungere ora, finalmente, una loro giusta, adeguata e completa collocazione nella didattica e nella ricerca alla stregua dell’Università, senza più complessi di superiorità, ma nemmeno di inferiorità.

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