A tu per tu con “UNA”, la cantautrice indipendente che crede nella forza della musica

Bologna. “UNA” è il nome d’arte della cantautrice d’origine torinese Marzia Stano, con la Puglia nel cuore, sua terra adottiva, ma che attualmente vive e lavora a Bologna. Formatasi sulla scena indipendente degli anni 2000 come front woman della band elettro punk “Jolaurlo”, dà vita assieme a tre amiche all’associazione “Elastico faART”, un collettivo al femminile altamente inclusivo, in cui sperimentare pratiche creative e nuovi linguaggi artistici, nella direzione della produzione indipendente.

Aderendo profondamente alle sue radici musicali contaminate, dalla musica techno a De André, nel 2013 Marzia Stano lancia il suo primo progetto solista “UNA”, presentando il suo album d’esordio: “Una nessuna centomila”, prodotto da Giacomo Fiorenza e pubblicato da “Martelabel” con il sostegno di Puglia Sounds. Il disco approda nel breve termine in una fortunata tournée nelle principali capitali europee, ricevendo il plauso di critica e pubblico come successo che si colloca a pieno titolo nel panorama indipendente.

Nel 2014 è la volta di “Come in cielo così in terra”, un concept album di undici tracce che riflettono tutte, in modo differente, la vacuità di un tempo precario, sospeso tra false illusioni ed eterno presente, che assume a tratti la forma di un omaggio senza mai tradire la cifra stilistica originaria della cantautrice. Una antologia di esistenze sparse che la musica ha il potere di connettere universalmente, per restituire a chi ascolta una dimensione di cantautorato pura, ibrida e trasversale.

Fa parte del progetto “Donna Circo”, il primo disco femminista della storia italiana scritto e registrato nel 1974 da Paola Pallottino (autrice di testi per Lucio Dalla) che non ha visto mai la pubblicazione. Il disco nuovamente arrangiato e reinterpretato da dodici artiste attive in Emilia Romagna (Una, Valeria Sturba, Francesca Bono, Vittoria Burattini, Angela Baraldi, Suz, Nico Note, Laura Agnusdei, Marcella Riccardi, Eva Geatti, Meike Clarelli, Alice Albertazzi), pubblicato dalla “Tempesta dischi”, viene portato dal vivo nei teatri di tutta Italia. Nel 2020 fonda la propria etichetta discografica “Elastico Records” con la missione e l’obiettivo di contrastare il gap di genere nella discografia italiana.

Quando hai scritto “Il paese che canta” hai suggellato in musica un’umanità affacciata sulla soglia della vita che resiste a modo suo. Oggi, in un tempo post-Covid, come percepisci questa canzone?

Il Covid ha messo in luce molte fragilità. Il paese che canta è un pezzo che critica l’Italia per la sua scarsa struttura in termini di welfare, di diritti, di opportunità nel mondo del lavoro ma tutto sommato è anche un paese che si fa perdonare le sue mancanze perché “si mangia bene, si beve, si ride e si balla, il paese che non conta ma canta”. Spero vivamente che l’era post Covid sarà caratterizzata da nuove soluzioni in campo ambientale e politico e che si riesca a superare lo stato di ansia sociale che si è diffuso principalmente tra i più giovani.

“Sotto il cielo dell’Ilva” è un brano che restituisce il fermoimmagine di un’intera città: Taranto, dipinta per “la rovina e la miseria delle fabbriche dell’Ilva”. Ci racconti il tuo legame con la Puglia?

Io e la mia famiglia ci siamo trasferiti da Torino a Santeramo in colle in provincia di Bari nel 1989, ho trascorso l’infanzia e parte dell’adolescenza in un paese di provincia, grande quanto il quartiere della capitale piemontese in cui sono nata. Sono cresciuta in modo semplice ma non facile, da adolescente il mio modo di essere era ritenuto troppo trasgressivo e in diverse occasioni mi sono sentita fuori posto e sola. Poi è arrivata la musica che mi ha cambiato la vita. Confesso di avere nei confronti della Puglia un rapporto ambivalente ma la considererò sempre la mia terra e le devo molto, è una regione con un potenziale culturale immenso e la osservo cambiare ed evolversi sotto molti aspetti.

In seguito alla tua partecipazione a Sanremo Giovani, hai avuto l’opportunità di esibirti al fianco di artisti come Francesco Gabbani ed Ermal Meta. Come questa esperienza professionale ha inciso sul tuo lavoro successivo?

Sanremo Giovani è stata un’esperienza importante, mi ha fatto capire tante cose del mondo musicale italiano, intanto che se sei donna devi fare il doppio della fatica degli uomini per raggiungere la metà del successo dei tuoi colleghi, e in secondo luogo ho capito che quello non era il mio mondo. Un mondo basato sulla quantità di follower, di visualizzazioni e di fan. Ermal lo conosco da molto prima di Sanremo e sono contenta che abbia fatto tutta questa strada perché era quello che voleva davvero, lo conosco dai tempi della Fame di Camilla e lo stimo non solo per come scrive ma soprattutto per la sua grande perseveranza e determinazione.

In “Professoressa” rendi omaggio ad una donna speciale che, come per magia, veste i panni di tutte le muse della tradizione letteraria italiana. Stefania Loretti è reale o cede al mito anch’essa?

È più che reale, anzi è proprio il simbolo di una realtà che riguarda le centinaia di migliaia di insegnanti precari italiani. Insegnanti che vengono sfruttate senza alcuna garanzia di continuità, senza alcuni diritti fondamentali a discapito loro ma soprattutto della formazione degli studenti.

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