“Le Braci”, dall’opera di Sándor Márai alla drammaturgia di Laura Angiulli

Caserta. Doppio appuntamento con la scena lo scorso 11 febbraio, al Teatro Comunale “Costantino Parravano” di Caserta, in occasione del “Salotto a Teatro”, gli incontri tra i protagonisti della scena contemporanea e il pubblico curati da Maria Beatrice Crisci.

Doppio perché prima della rappresentazione serale, nell’elegante foyer del teatro, si è svolto l’incontro con la regista de “Le Braci”, Laura Angiulli, e gli attori, Renato Carpentieri e Stefano Jotti.

“Dopo una certa età, o sei maestro o non sei nessuno” ha affermato sarcastico Carpentieri nel corso dell’introduzione della giornalista professionista che, con garbo, gli ha riservato l’appellativo di maestro.

“Le Braci” è la storia di un’ossessione dice subito Carpentieri, un’ossessione che si presta ad un dialogo tra due contrapposti, così lontani così vicini, almeno in gioventù.

Sembrerebbe la storia di un’amicizia ma non è esattamente così; più precisamente è il racconto della non ricomposizione della stessa tra i due protagonisti, Henrik e Konrad, che a distanza di quarant’anni anni si rincontrano per dirsi ciò che li divise.

L’azione si apre in una atmosfera raffinata, è un salotto borghese quello che ci è presentato: tre sono le poltrone che riempiono la scena; due delle quali, poste in proscenio, saranno occupate dagli attori che dinamicamente agiscono lo spazio con grande precisione di movimento. I due sono soli e un sentimento di assenza-presenza li pervade durante tutto il corso della narrazione. Krisztina è la donna che, sebbene non vediamo, ce la fanno sentire. È stata la moglie di Henrik e l’amante di Konrad, il suo migliore amico. Entrambi l’hanno amata perdutamente; entrambi l’hanno “tradita, sopravvivendola” dicono. Sicuramente entrambi l’hanno perduta e, con essa, si sono persi anche loro ma la passione quella no. E “Le candele bruciano fino in fondo”, il titolo del romanzo di Márai, scritto nel 1942, forse è proprio un indizio in questa direzione. L’ indizio che porta ad affermare che nella vita contano soltanto le passioni, le emozioni legate ai sentimenti che, se autentici, niente, – neanche la morte – può spegnere.

I sentimenti che percorrono tutto il tempo trascorso come “il brillare delle stelle giunge a noi anni luce dopo il loro collasso”.

Braci di una storia, ceneri di una vita, di un desiderio di umanità, quella che si va consumando, dopo che la guerra ha per sempre inferto ferite che non si rimargineranno mai.

È questa la scia emotiva nella quale lo spettatore è gettato grazie alla potenza della parola sulla scena, grazie al suo silenzio sacro, alle luci, magistralmente curate da Cesare Acetta che consentono di percepire ciò che è visibile e ciò che visibile non è. Perché il teatro è questa meraviglia: “è un grande campo del ritrovarsi, del misurarsi e dello scontrarsi con sè stessi” afferma la regista.

Il teatro è una finzione costruita a tavolino per produrre verità, aggiungo io.

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