Napoli. Dal 24 al 29 settembre è in scena al Bellini il teatro d’urgenza di Mimmo Borrelli, quello da lui stesso definito “scomodo per l’attore”, impegnativo fisicamente ed emotivamente, “in grado di scuotere il pubblico e di impedirgli di dormire”.
Si tratta di “Sanghenapule: vita straordinaria di San Gennaro”, per la regia di Mimmo Borrelli, suo è il testo e la drammaturgia scritta con Roberto Saviano.
Questi è la voce narrante che, secondo lo schema euripideo della tragedia greca, inizia con un prologo, ossia con un monologo preliminare in cui rivolgendosi direttamente al pubblico illustra quello che di lì a breve vedrà sul palcoscenico, fornendo loro le coordinate spazio-temporali, a suo modo però, che è quello freddo e distaccato del cronista di storie di camorra.
Saviano avverte: non è la storia ma una delle storie su Iannuario – il cognome di origine romana è stato assurto poi a nome proprio – santo del popolo, e non solo quello napoletano ma di tutti coloro che emigrati all’estero, pur non essendo napoletani, trovano in lui ascolto e comprensione, perché è un santo terreno, che non giudica, e a lui ci si può rivolgere per i piccoli bisogni quotidiani o per richieste assurde come il non far soffrire troppo la vittima del furto.
Basti pensare che nel quartiere di Little Italy a New York San Gennaro viene festeggiato per 11 giorni consecutivi a partire del 19 settembre e non solo per commemorare il suo martirio, ma anche per ricordare il rapporto che lega gli italiani e gli statunitensi.
Al prologo segue il primo canto del coro, le molteplici sonorità di cui è capace Borrelli, che appare da subito quasi stregato, allucinato, sciorinatore di versi in una lingua a tratti incomprensibile di cui è creatore: grazie anche a una continua personale ricerca antropologica mediante interviste a ex pescatori bacolesi e personaggi locali, ha assorbito frasi, modi di dire, suoni che contemporaneamente sono espressioni corporee, immediatamente comunicative.
Ecco allora in scena un linguaggio della memoria “frutto della mente teatrale”, voluto miscuglio di latino maccheronico e napoletano antico e regionale, in rime baciate, endecasillabi, in un dialogo con se stesso, unico attore di scena, con una musica che non accompagna ma è anch’essa protagonista discreta di questa narrazione, che in molti casi è una nenia.
Sono suoni originali, mai eccessivi o sovrastanti il canto o il recitato, realizzati da Gianluca Catuogno e Antonio Della Ragione con un organo del ‘700, una tammorra, un pitipù, riverberi a molla e altri strumenti come la cetra, l’organetto, le campane tibetane.
Quel che si ricava si sposa perfettamente con la scenografia di Luigi Ferrigno, costituita da un paesaggio di rovine rotanti che ricordano una delle tante gouaches napoletane di un vedutismo però andato in malora, al centro il ceppo su cui Iannuario venne decapitato, trasformato in piedistallo e, a sormontare tutto, l’albero sotto sopra che ricorda il fico selvatico delle Terme di Baia, la piccola Roma per Orazio.
Intorno fuochi fatui per illuminare l’antro buio dal quale appare e scompare il protagonista, circondato da campane di vetro anch’esse portatrici di luce: sono di Salvatore Palladino, mitra e pastorale di Enzo Pirozzi.
Alla parodo seguono gli episodi, se ne contano quattro più l’esodo, ovvero la parte finale in cui continua questo alternarsi tra parte recitata, ballata e cantata di Borrelli e quella raccontata da Saviano, che non è solo la storia di San Gennaro ma dei napoletani tutti, di cui il santo – il più terreno che esista – “è padre, fratello, madre, nonno, nonna, figlio e protettore, che media tra cielo e terra, morte e vita.”
Filo conduttore è il sangue che da morto ritorna in vita ogni anno sciogliendo i grumi conservati nell’ampolla da Eusebia, la nutrice. Ma è anche il sangue versato dalla camorra, quello però resta rappreso, e il sangue inteso come passione viva dei napoletani, che scorre come la lava del Vesuvio sempre attivo.