“Oltre Caravaggio. Un nuovo racconto della pittura a Napoli”, la storia è protagonista al Museo di Capodimonte

Napoli. Il Seicento è nell’immaginario collettivo il secolo consacrato a Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, interprete emblematico del mondo dell’arte che attuò una vera e propria rivoluzione diventando precursore di uno stile pittorico che pone al centro la realtà oggettiva, senza alcuna patina edulcorata.
In quanto ideatore di una nuova corrente pittorica Caravaggio ha saputo ispirare generazioni di artisti e, come la storia dell’arte insegna, i maggiori esponenti ispiratisi alle suggestioni dell’artista lombardo trovarono la loro collocazione ideale in una città contraddistinta da un fascino magnetico, crocevia di popoli e di culture, all’avanguardia da sempre: Napoli.
È proprio da queste riflessioni che parte la mostra “Oltre Caravaggio. Un nuovo racconto della pittura a Napoli” inaugurata lo scorso 31 marzo e visitabile presso il Museo e Real Bosco di Capodimonte fino al prossimo 7 gennaio, un’esposizione curata da Stefano Causa e Stefania Piscitello.
Va detto che il “Seicento napoletano” è una definizione alquanto moderna e si deve allo storico dell’arte Roberto Longhi vissuto a cavallo tra il XIX e il XX secolo: secondo Longhi, infatti, il naturalismo caravaggesco è la base da cui si è poi originata l’arte partenopea che vide nello spagnolo Jusepe de Ribeira il suo rappresentante più convinto.
È logico dedurre, quindi, che se Merisi è stato l’ideatore di un nuovo stile, i suoi “allievi” hanno saputo diffondere opportunamente quello stile trovando nel capoluogo campano il terreno fertile da cui trarre spunto e da cui lasciarsi sedurre per i propri lavori. Nel corso del XVII secolo, infatti, la città era una delle megalopoli principali ed esercitava un’indiscussa influenza in Europa grazie alla poliedricità delle culture presenti nel suo territorio la cui impronta indelebile è visibile ancora oggi.
Le opere in mostra a Capodimonte sono 200 e rappresentano un racconto corale che si dipana attraverso 24 sale: si tratta di lavori provenienti esclusivamente da collezioni permanenti del museo, senza alcun prestito esterno. Oltre a Ribeira, sono visibili le opere di artisti come Guido Reni, Simon Vouet, Cosimo Fanzago, Artemisia Gentileschi, Luca Giordano, per citarne solo alcuni.
L’esposizione si apre con un’introduzione dedicata agli artisti del primo Seicento come Belisario Corenzio e il suo allievo Battistello Caracciolo e sottolinea quanto l’arte napoletana del tempo fosse variegata e ben lontana dalla semplicistica definizione di tardo manierismo.
Si prosegue, poi, con i lavori commissionati dal mondo ecclesiastico da cui provenivano i committenti più illustri: in tal senso, colpisce in particolar modo il ciborio di Cosimo Fanzago in bronzo dorato, marmi policromi e pietre dure impreziosito da decorazioni che riproducono rami e fiori.
Con Simon Vouet e Giovanni Lanfranco si assiste ad uno stemperarsi dell’influenza caravaggesca mentre con Ribeira si nota una rappresentazione quasi esasperata della realtà che però non disdegna richiami ben ponderati allo stile di Tiziano: tra i soggetti più amati si segnalano “Il Sileno ebbro” e “Il Trionfo di Bacco” di Francesco Fracanzano.
Grazie a Domenichino, invece, si deve un nuovo interesse per il classicismo di Raffaello Sanzio come confermano alcuni lavori di Pacecco De Rosa che nei suoi dipinti pone nuovamente al centro scene di chiara ispirazione mitologica come “Il Bagno di Diana”.
Tra i cosiddetti “ribereschi a passo ridotto” va invece segnalato Johann Heinrich Schönfeld, pittore e incisore di altissimo livello che mostrò una notevole sensibilità nei confronti dei lavori di Bernardo Cavallino e Cosimo Spadaro.
Il percorso espositivo prosegue con le opere riconducibili alla seconda metà del Seicento: Napoli è in pieno fermento e grazie a Luca Giordano iniziò a diffondersi il barocco romano di artisti del calibro di Gian Lorenzo Bernini e Pietro da Cortona che focalizzarono la loro attenzione su soggetti religiosi ma anche mitologici.
La peste che imperversò in Europa nel corso del XVII secolo toccò pure Napoli ma il dolore seppe ispirare l’arte come si evince dai lavori di Nicola Malinconico, in particolar modo nel dipinto intitolato “Adamo ed Eva piangono la morte di Abele”, e la religiosità nelle sue forme più istintive trovò spazio nelle opere di Giordano dove assoluta protagonista è la folla intrisa di devozione.
Il Barocco napoletano è contraddistinto da chiari richiami al teatro e alle sue scenografie: la tela di Francesco Solimena in cui sono raffigurati “Enea e Didone” rappresenta un palese esempio di quanto affermato ma va detto che gli artisti sentono anche la necessità di raffigurare se stessi e questa tendenza è cavalcata sia da Solimena che da de Matteis il quale si raffigura in vestaglia e papalina.
Una delle tappe finali della mostra è dedicata al Grand Tour, esperienza doverosa nel corso del XVIII secolo, e Napoli insieme agli scavi di Ercolano e Pompei e ai templi di Paestum rappresentava una tappa obbligata: è in questo periodo che si fa strada il Vedutismo, soprattutto nei lavori degli artisti provenienti dal Nord Europa, con inquadrature che mirano ad esaltare paesaggi mozzafiato che contribuiscono alla nascita della poetica del Sublime, un concetto molto caro all’arte, alla letteratura e alla filosofia dell’epoca.
Infine, la mostra volge al termine con tre dipinti napoletani del secondo Ottocento: Domenico Morelli, Filippo Palizzi e Michele Cammarano concludono questo excursus pittorico confermando la loro appartenenza al “caravaggismo moderno” e anticipando con i loro lavori le innovazioni che saranno portate dai fratelli Lumière.
Possiamo affermarlo senza remore, l’esposizione visitabile al Museo di Capodimonte è un invito alla riflessione storica, intesa come esaltazione dei fasti del passato ma, soprattutto, come musa per una nuova scrittura del presente.

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