“L’albergo dei poveri”, un dramma corale ricco di amara comicità e denuncia sociale

Milano. Dopo la prima nazionale il 9 febbraio scorso al Teatro Argentina di Roma, arriva al Teatro Strehler, dal 7 al 28 marzo, “L’albergo dei poveri” di Massimo Popolizio, titolo che, nel 1947, inaugurò il Piccolo Teatro, ora coproduttore insieme al Teatro di Roma. Conosciuto anche come “I bassifondi”, o “Nel fondo”, o ancora “Il dormitorio”, l’opera di Maksim Gor’kij fu rappresentata per la prima volta a Mosca nel 1902 con la regia di Stanislavskij e poi ribattezzata “L’albergo dei poveri” da Giorgio Strehler nel 1947, in occasione della regia che inaugurò il Piccolo Teatro di Milano il 14 maggio del 1947. In scena era lo stesso Strehler, nei panni di Aleška (oggi interpretato da un ex allievo della Scuola del Piccolo, Gabriele Brunelli), affiancato da attori del calibro di Lilla Brignone, Marcello Moretti, Salvo Randone, Gianni Santuccio. Dopo 77 anni da quella prima, storica, rappresentazione italiana, Massimo Popolizio ripropone al pubblico il titolo voluto da Strehler, in virtù del suo valore emblematico e poetico, oltre che storico. “L’albergo dei poveri” è un grande dramma corale che si potrebbe definire shakespeariano nel suo sapiente dosaggio di pathos, denuncia sociale, amara comicità, riflessione filosofica e morale sul destino umano. In scena una compagnia di 16 attori, che impone alla regia la ricerca di un ritmo adeguato al continuo mutare delle situazioni e dei punti di vista. Un crescendo di tensione reso ancora più evidente dall’angustia dello spazio evocato: un rifugio di derelitti e alcolizzati dove i personaggi trascorrono i loro giorni tentando di non soccombere alla disperazione e all’inerzia della sconfitta. Si tratta di una sfida che, dopo Stanislavskij e Strehler, è stata raccolta anche da grandi maestri della regia cinematografica, tra gli altri, Renoir e Kurosawa. Se le grandi opere viaggiano nel tempo per essere rilette a ogni generazione da angolature diverse, lo stile di regia di Popolizio, la sua maniera di dirigere gli attori e il meccanismo teatrale nel suo complesso sembra particolarmente adeguato a scrivere un nuovo capitolo di questa storia di interpretazioni. Il nostro non è il mondo del 1902, e nemmeno quello del 1947: è mutato anche il concetto stesso di «povertà», ma l’energia drammatica, la forza visionaria, la disperata lucidità dei personaggi di Gor’kij è ancora intatta, grazie anche alla nuova scrittura drammatica di Emanuele Trevi. «Scoprire che cosa possa accadere con un copione come quello che abbiamo trattato – spiega Massimo Popolizio – significa riscriverlo in scena con gli attori e le attrici. Hai tra le mani un oggetto che è fondamentalmente un materiale di interpretazione; una parola, questa, invece completamente fuori moda. Qui non c’è alcun metateatro, questo è un teatro di personaggi che devono essere resi tridimensionali, che dalla carta devono alzarsi in piedi sul palcoscenico. Essendo di carne e d’ossa, una volta alzati in piedi ci raccontano qualcosa a prescindere dalle parole. È un lavoro molto complesso». «Lavorando abbiamo passato dei mesi molto nutrienti dal punto di vista creativo: a definirti artisticamente – racconta Emanuele Trevi – non è solo quello che fai, ma anche quello che escludi di fare. Abbiamo cominciato a lavorare alla vecchia maniera, su dei testi non teatrali, i due grandi romanzi “Satyricon” di Petronio e “Metamorfosi” di Apuleio. Però quel che a volte succede è che, se vuoi innovare, ti trovi a tornare su qualcosa di apparentemente più convenzionale, per cambiarlo dall’interno. Per me è stata fondamentale la lettura dei Vagabondi, la raccolta di racconti giovanili di Gor’kij».

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