“L’albergo dei poveri”, Massimo Popolizio porta in scena le amarezze della vita reale

Napoli. Dal 3 al 14 aprile il Teatro Mercadante ospita “L’albergo dei poveri” per la regia di Massimo Popolizio, anche nella parte del pellegrino, nell’adattamento di Emanuele Trevi dell’opera del drammaturgo russo Aleksej Maksimovič Peškov, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Maksim Gor’kij, ovvero “l’amaro”.
Che l’autore volesse rappresentare l’amarezza della vita reale ce ne rendiamo conto prima dell’inizio, quando – per far calare gli spettatori nell’unità di tempo e di luogo – il sipario viene lasciato aperto a mostrare lo stanzone squallido (scene di Marco Rossi) dove di lì a breve si intrecceranno le storie dei numerosi personaggi dei bassifondi russi di inizio Novecento.
È un luogo quasi claustrofobico, con pareti alte, grigie, che poi cambieranno colore grazie alla luce (a cura di Luigi Biondi), l’unica insieme alla musica ad alternarsi, per dare la sensazione – che poi si rivelerà un’illusione – che qualcosa cambi.
Invece, non c’è via d’uscita, né reale, né metaforica, tant’è che le uniche aperture sono due finestroni in alto, ai quali il gruppo anela, invano, ed è l’unica occasione nella quale i singoli sentono di avere un destino comune e si compattano su un unico pallet in legno che funge da letto.
Al centro, sullo sfondo del palco, un arco che conduce alla luce, che tutti attraversano per poi rimbalzare nella stanza ripercorrendo avanti e indietro la passerella che lo collega con la parte anteriore del palco.
La miseria è nel luogo – con arredi essenziali, che vengono disposti in maniera differente nel cambio quadro, nell’abbigliamento (di Gianluca Sbicca), consunto e polveroso, ma soprattutto nell’animo umano, che affiora attraverso un linguaggio crudo, realistico, che dice quel che pensa, in una recitazione attenta, curata, volutamente enfatica, quasi a volere mostrare qualcosa dietro una quotidianità sempre uguale, ma che non c’è, perché tutto in senso circolare ci riconduce al punto di partenza.
È una recitazione che, come sosteneva Konstantin S. Stanislavskij, è quel “falso va cercato…quel tanto che…potrà aiutare a trovare il vero”.
Ed è un mondo sotterraneo quello della miseria che anche oggi convive con quello ordinario nella sua totale indifferenza, dove non ci sono veri protagonisti (tutti bravi da Giovanni Battaglia, a Gabriele Brunelli, a Luca Carbone, a Martin Chishimba che intona anche due canti/preghiera a cappella, Giampiero Cicciò, Carolina Ellero, Raffaele Esposito, Diamara Ferrero, Francesco Giordano, Marco Mavarecchio, Michele Nani, Aldo Ottobrin, Silvia Pietta, Sandra Toffolatti e Zoe Solferino).
C’è così il pellicciaio in rovina, che avrebbe immaginato di morire con le mani gialle di tintura e invece se le ritrova neutre, il conte in rovina, la storpia che legge in continuazione un libricino di una storia d’amore nella quale si immedesima, non sapendo quale sia il confine tra la realtà e la fantasia, l’attore che non riesce a lavorare, il proprietario del locale che muore accoltellato dal ladro, amante di sua moglie, che invece è innamorato della sorella della donna, sulla quale per gelosia la prima getta dell’acqua bollente.
Tra tutta questa folla appare un pellegrino, riconoscibile dalla conchiglia al collo, la barba lunga e il bastone in mano, che sembra indurre al cambiamento attraverso l’interazione e le riflessioni con ciascuno dei personaggi.
Ma sono fugaci i momenti di compassione, di tenerezza, di comprensione, tutto svanisce con il ritrovamento del corpo penzoloni dell’attore, morto suicida; così, tutto ritorna nella tristezza e nella disperazione.
“Che i poveri siano chiamati a pagare di più degli altri? Ma chi tiene i conti?” si interroga il pellegrino.

Crediti foto: Claudia Pajewski.

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