La Mostra di Plinio Mesciulam, l’arte come multiverso

Roma. Il novantatreenne Plinio Mesciulam è entusiasmo, segni e colori alla ricerca di novità e di rielaborazioni del suo stesso passato. Concentrato sulla complessità, sul contrasto degli elementi e la loro compenetrazione, dice: “Avevo preparato un’autobiografia, l’ho conclusa con ‘sono un cretino’, massima forma di narcisismo, l’autoflagellazione. Me l’hanno censurata e non se n’è fatto più niente”.
Nei mesi di dicembre e gennaio, il Teatro Eliseo ospiterà la mostra del grande Maestro genovese, artista, pittore e scultore dal dopoguerra ad oggi.
“Le opere esposte al Teatro Eliseo – spiega – sono lavori in cui anche la cornice conta, in cui c’è un rapporto della pittura con l’architettura, perché la cornice è architettura. Sono opere tridimensionali a parete, di legno e carta pressata ricoperta di colla e vernice, di cui soltanto due ‘a tutto tondo’ e che dunque figurano come sculture”. E aggiunge: “Artisticamente sono nato a Roma con la Quadriennale del ’48, nella sala dove c‘erano tutti i maestri dell’astrattismo italiano tra cui Fontana e Munari, che allora si stavano affermando a livello mondiale e nazionale. Loro però erano già dei maestri, io ero un giovane esordiente e fui contento quando lo stesso Fontana e Tullio d’Albisola, al secolo Tullio Mazzotti, eclettico e brillante ceramista del movimento futurista italiano, acquistarono le mie opere”.
Fondatore tra l’altro del movimento artistico “Mohamed, centro di comunicazione ristretta”, che coinvolge artisti di tutto il mondo e che è stato definito da Pierre Restany ‘l’anticipazione di Internet’ perché, sostiene l’artista genovese, basato sul concetto “connettivo e non collettivo”, Plinio Mesciulam è presente oggi con le sue ricerche e sperimentazioni nella Library del The Getty Research Institute, dove è conservata la documentazione di più di mille ‘comunicazioni’ di Mohammed tra pitture, disegni, poesie, scritti.
“Ho avuto la fortuna di essere sostenuto da tanti critici d’arte come Dorfles, Bellasi e Barilli – racconta – ma devo la mia affermazione nel ’77 a Francesca Alinovi, che è stata molto importante per me perché mi ha permesso di fare una manifestazione internazionale, la prima mostra in Italia sulle performance, cosa per cui la Alinovi è stata definita da Vittorio Sgarbi ‘la sacerdotessa delle performance’”.

Il primo errore che si potrebbe compiere nel giudicare complessivamente la vicenda artistica di Plinio Mesciulam, avendo la presunzione critica di volerci ricavare qualcosa di realmente attendibile al di fuori delle inclinazioni soggettive, è quello di trattarla alla stregua di come si farebbe con la maggior parte degli altri artisti. Errore capitale: sfido chiunque a valutare l’avventura espressiva di Mesciulam come se fosse una storia sola, di quelle che magari risultano anche molto variate al loro interno, ma per le quali in fondo non sarebbe difficile rinvenire un unico filo conduttore. E invece Mesciulam cambia registro, non temendo affatto di esaurire vite creative che pure non avevano dato poco per permettere ad altre di sbocciare. Bandita in precedenza, la figura umana riappare piuttosto inattesa, anche se in versioni non mimetiche, concettualizzate secondo accezioni di generalità piuttosto che di particolarità, sintomatica di un nuovo atteggiamento mentale che non crede più alle contrapposizioni fra fronti artistici, fra passato e presente, fra materialismo e spiritualità, propugnando la compenetrazione fra astratto e figurazione proprio come capita in certe opere in cui maschile e femminile aspirano all’intreccio fino al punto di svaporare nell’indefinito.
Ciò che Mesciulam mantiene inalterata, perché non solo di cambiamenti, ovviamente, è fatta la sua arte, è la fiducia nella planarità come dimensione spaziale dell’immaginazione, rinunciando a qualunque idea di profondità ottica come se possa distogliere dal procedimento creativo per cui il pensiero diventa immagine. Planarità che ribadisce pienamente il suo primato nella fase in cui Mesciulam, già in principio degli anni Sessanta, decide di confrontarsi con i modi della comunicazione di massa, instaurando nel contempo un rapporto sempre più stimolante con l’immagine fotografica.
Se è nuova vita, non dura molto anche questa. Dopo gli “Emblegrammi” in contrazione ed espansione, con i quali Mesciulam ritorna alle simbologie regolari e ai contesti angolari degli anni Cinquanta, arriva il momento del ritorno all’Avanguardia intellettualmente più ambiziosa e provocatoria, dell’arte, in questo caso, fuori dall’arte, con performance teatrali che toccano probabilmente il loro culmine nelle “Epifanie Ostensibili”, portate nel 1977 alla Settimana Internazionale di Bologna dalla “sacerdotessa” Francesca Alinovi, ancora ignara del fatto che un’altra performance, crudelissima e delittuosa, avrebbe posto fine anzitempo alla sua vita. È un fiume in piena, il Mesciulam di quel periodo, una trovata tira l’altra. Sempre più preso dalle suggestioni del linguaggio verbale combinato a quello visuale, inventa una “Net Art”, come è stata definita, dove la rete viene costituita dai destinatari di una serie sterminata di messaggi postali piuttosto criptici e in stile vagamente New Dada. Un approdo finalmente stabile? Niente affatto, l’esperienza del “Centro di Comunicazione Ristretta Mohammed” non si è ancora conclusa che Mesciulam ritorna alla pittura, perfino alla figura umana, che viene fatta fluttuare liberamente entro ambienti dal nuovo aspetto biomorfico (“Iperdecorativismo”), uscendo dai dipinti per conquistare finalmente uno spazio vitale entro la triplice dimensione (“eteroplanarità”).

Ma non è ancora finita: ancora nuovi lavori a succedersi negli anni seguenti, con frequenza impressionante fra spiazzanti montaggi di grafica e fotografia, finestre molli, nuove spiritualità ostensorie, ombre di familiari proiettate su architetture, modelle, segni emblematici ripresi e rielaborati, fino agli ultimi, commoventi richiami alla sua Genova ferita ma mai domata, costante nell’arte e nella vita di Mesciulam come poche altre. Troppo per essere ripercorso anche succintamente in uno scritto di questa ampiezza, saranno altri a farlo. Ci accontenteremmo di cogliere, nel magma multiversale di questa produzione sterminata, il sapore del brodo già introdotto a inizio testo, se mai sia possibile farlo.
È come se per Mesciulam tutto acquisisca il suo senso più compiuto nel momento in cui finisce, potendo aggiungerne di altri solo nel momento in cui viene ripreso a distanza di tempo per essere rivissuto, ma anche stravolto nella nuova esistenza.

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