Stefano Rampoldi, in arte Edda, racconta il nuovo disco: “Fru Fru”

Arezzo. Una preghiera post contemporanea, quella dell’uomo che ha percorso migliaia di ere in un’esistenza, che ha attraversato vicoli ciechi, che è stato risucchiato dal vortice, che ha perso tutto, quasi anche se stesso, e mai davvero, perché in fondo al nero ha sempre intravisto la Luce, e vi si è affidato per risanarsi e rigenerarsi.
Stefano Rampoldi, in arte Edda, uno dei più discussi – e geniali – protagonisti della musica indipendente italiana.
Frainterderlo è facile, quasi di default, per un orecchio non attento.
Lui canta l’uomo, con tutte le sue debolezze e nefandezze, gli istinti più bassi e la soavità, lo canta senza filtri, senza nulla tacere, e lo fa con una rude scabrosità e una leggerezza che in “Fru Fru” – il suo nuovo, spiazzante, disco – diventano un ossimoro in musica senza paragoni.
Una custodia arancione con rappresentato un wafer (il fru fru, per l’appunto), uno dei pochi biscotti senza uova – che detesta – e dà senso di leggerezza – che ama, in questo periodo storico.
Dentro ci sono nove “biscotti della fortuna”, il biglietto, chiaramente, è musicale.
Il primo assaggio, “E se”, è anche il più lungo, quattro minuti e 27 secondi che stordiscono, letteralmente, i sensi.
La melodia è un’esplosione fresca, futile, festante, l’arrangiamento volutamente rievocante l’iconica Raffaella Carrà e gli Strokes, la voce sempre imparagonabile, il testo scioccante. Un viaggio intimistico e talmente trasparente da lacerare la coscienza. Senza mezzi termini e preavviso, Edda fotografa alcuni dei pensieri più osceni della natura umana, ipotizzandone la realizzazione, per poi, nella seconda parte, ragionarci su e rappresentare l’uomo che non chiude gli occhi dinanzi a se stesso, che non si scandalizza della propria umanità e che, consapevolmente, sceglie il proprio agire.
Se questa è la rotta tracciata, tutti gli altri brani la seguono senza sbagliare un solo soffio di vento.
Un concept sull’uomo, sulla vita, con messaggi forti che trasudano passione, rifiutano la mercificazione, le luci effimere del niente, reclamano parità di diritti – quello di essere se stessi in primis, che parlano di sesso, droga, religione, omosessualità, filosofia del tutto e del niente, e omaggiano l’Amore come scintilla di ogni “ogni”.
Ed è proprio una dichiarazione d’Amore il brano dedicato alla madre, “Edda” (nome con il quale Stefano si è ribattezzato), passata ad altra vita in un recente giovedì: “Distruggi con il tempo tutte le cose ma l’amore no, l’amore mio non può”.
Paradisi artificiali di sesso e droga si mescolano a storie di Santi dalle mani sante o sporche di sangue e a quelle dei filosofi studiati a scuola e che nulla sanno, forse, della realtà, dipingendo una quotidianità complessa e composita nella quale è, tuttavia, ancora possibile non perdere di vista il bene e la semplicità.
Lavora a una nuova canzone, quando ci sentiamo.

Chi è Stefano per Edda?
“Stefano è un povero ragazzo, lo siamo tutti, nel mio caso rendersene conto è più evidente. Stefano è un po’ malmesso ma non dal punto di vista materiale, anche se anche in quel caso non siamo all’apice della catena alimentare, io ho 56 anni ma è come se ne avessi 16, è uno stato naturale dell’anima. Credo lo sarò sempre, lo sarò anche a 80 anni, l’unico problema è che ti ritrovi un corpo più difficile da gestire. Il corpo può essere considerato un amico a qualunque età, anche se poi non è vero.
Ho incontrato Hare Krishna a 19 – 20 anni e gli insegnamenti sono sempre gli stessi.
Io non ho una grande considerazione di Stefano ma lo abbiamo rimesso sulla buona strada e, quindi, mi dà da sperare bene, fin adesso è stato un discolaccio”.

Non credo affatto tu sia povero da un punto di vista spirituale, a me certi tuoi testi, anche se è forte dirlo, sembrano una preghiera.
Sicuramente i testi che ho messo in questo disco sono un distillato di una spiritualità, un po’ opacizzata ma c’è, ed è la cosa più importante per me in questo momento della vita, dopo di che, io ho scelto di fare il cantante e, da lì, è normale che qualcosa venga fuori nelle mie canzoni.
Uso poche parole, non metto testi lunghissimi, non mi piacciono e non sono neanche in grado, sono parole scelte e un po’ preghiere, volendo, anche se dentro ci sono parolacce, e non verranno mai ascoltate in una Chiesa, c’è dentro della spiritualità. Non lo dico perché voglio atteggiarmi, io sono anche perverso, perso, ma anelo in alto, non in basso”.

Da Hare Krishna credi nella reincarnazione, a che punto sei?
“Recito i mantra Hare Krishna per due ore al giorno circa, 108 mantra per 16 volte, lo faccio perché è il mio dovere, è un modo per andare in alto, mi hanno insegnato quello e quello faccio. Mi impegno per evolvermi, è difficile ma ce la metto tutta”.

Tu hai il coraggio di guardare a fondo nell’uomo e dire: io sono tante cose ma brillo, alla fine. Questo tuo modo d’essere senza filtri ti rende “pericoloso”?
“Sì, certamente, soprattutto con chi si scandalizza facilmente e, quindi, con la maggior parte delle persone. Troppi si soffermano all’apparenza”.

Non ti definisci un cantautore, sostieni che la melodia per te sia più importante.
“Sono un cantante. Per me è importante il suono, la melodia è l’inizio di tutto, ricorda l’abbraccio della mamma. Forse, ancora prima della melodia, realizzo ora mentre parlo con te, l’importante è la voce, il suono della voce, il suono primordiale che unisce la razza umana, anche se non capisci il significato delle parole, come quando ascoltiamo una canzone straniera e ci arriva solo l’emozione, al di là dei testi. Metti Battisti, avrebbe potuto cantare ogni cosa, anche l’elenco telefonico, l’emozione sarebbe arrivata comunque. Il suono della voce è magico, mistico”.

La tua esistenza è stata molto travagliata: dall’abuso sessuale in giovane età, al successo con i Ritmo Tribale, all’allontanamento dalle scene, alla droga. La tua vita cammina di pari passo con la tua musica? Questo ritorno alle melodie anni ‘80, al pop, all’arancione della copertina, segnano la chiusura di un ciclo, una riappropriazione dell’energia, della spensieratezza? Ricominci da dove il buio ha interrotto il sorriso?
“Un ciclo l’ho chiuso quando ho lasciato i Ritmo tribale, quelle melodie, quel rock, i colori, i suoni, non mi appartengono più. Dopo c’è stata la droga, la comunità, la volontà di farcela, il lavoro nei ponteggi che mi ha restituito dignità, il ritorno alla musica, la scelta di farla diventare la mia unica attività, e probabilmente, oggi se ne chiude un altro di ciclo, è possibile.
Ad esempio, ho cambiato letteralmente il mio modo di far musica perché alcune frequenze sono più aggressive, altre più dolci e il suono condiziona tantissimo, è molto sottile come condizionamento. Di questo disco sono contentissimo perché mi rappresenta ed è la musica che ora mi fa stare bene, che voglio cantare.
E stavolta la copertina l’ho scelta io, così come il colore, e il titolo, che avevo associato ai biscotti e già mi piaceva tantissimo, poi mi è capitato di rivedere la scena di un film con Lino Banfi, su Fracchia, quella in cui lui è un commissario di polizia, fa una sorta di blitz in un ristorante e canta una specie di “fri fri”, m’ha fatto ridere, aveva un bel suono, allora ho deciso”.

Hai definito Fru Fru “musica d’intrattenimento”. A giorni inizia il tour, quando e dove sarà possibile intrattenersi insieme?
“Il tour partirà il 9 marzo da Ravenna e proseguirà per almeno tutto l’anno. Fra le prime tappe Bologna, Pisa, Milano, Modena, Torino, Firenze e Roma, quindi, avviso sin d’ora i residenti che andrò a suonare i campanelli di casa per invitarli a partecipare!”.
E considerato che, al momento, al Sud non ci sono ancora date da salvare, e il campanello della mia abitazione resterà, almeno per un po’, silente, io prenoto la mia partecipazione a uno degli appuntamenti già certi perché Edda è, sì, un cantante ma di quelli più unici che rari, da non perdere.

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