Le dinamiche di genere attraverso gli occhi della regista Adele Tulli

Roma. Classe 1982, Adele Tulli è un’artista brillante, poliedrica, dinamica e sperimentale che ha portato sugli schermi un modo di vedere la realtà con occhi nuovi attraverso i suoi film. La incontriamo per farci raccontare la sua visione della vita.

Molti ti conoscono perché sei la figlia della nota scrittrice e artista a tutto tondo Serena Dandini, nota soprattutto per la sua opera “Ferite a morte”. Cosa si prova ad essere figlia di una persona famosa? Ciò ha influito nel mondo dello spettacolo in cui lavori?
Si, molti mi conoscono in quanto figlia sua. Nel mondo dello spettacolo non è stato semplice emergere in quanto c’è una continua competizione e la meritocrazia non sempre è diffusa. Più che altro il sistema impone di puntare su chi proviene da un mondo dello spettacolo già avviato, come se tutti fossero portati a continuare ciò che fa il proprio genitore. Mi sono state chiuse delle porte ma altre se ne sono aperte. La cosa importante è che sono riuscita ad emergere e portare la mia arte dinanzi agli occhi della gente.

Attraverso i tuoi film e le opere di tua madre si possono vedere molti elementi che vi accomunano. Quale rapporto c’è con la tua genitrice e, soprattutto, in cosa ti ha maggiormente influenzata?
Mia madre è sempre stata presente nella mia vita anche se lunghi viaggi e molti impegni la portavano lontana da me. Proviene da una nobile famiglia decaduta, ha avuto una vita sentimentale molto burrascosa, due matrimoni falliti. Ho risentito di tutta questa situazione. Però mi è sempre stata vicina nei momenti di maggiore importanza e non mi ha mai abbandonata, anzi, mi ha sempre sostenuta, anche quando ha saputo che volevo fare la regista.
Ricordo, sin da quando ero bambina, il suo modo di approcciarsi a me, la sua vicinanza calorosa, il suo fare il tifo per me e la voglia di puntare sempre in alto verso la meta. Anche quando era presa dai suoi mille impegni, non mi ha mai fatto pesare la sua assenza. E le sono e le sarò sempre grata per il sostegno che mi ha dato. Però a Roma non ci vengo spesso, vengo saltuariamente, giro per l’Italia più che altro, ma la mia vita è a Londra.
Inoltre, mia madre è sempre stata in difesa delle donne e molte sue opere note lo testimoniano, in particolar modo quella più conosciuta “Ferite a morte” e la sua ultima pubblicazione dal titolo “Il catalogo delle donne valorose”. Mi ha insegnato che bisogna sempre stare dalla parte dei più deboli, combattere contro queste discriminazioni. Però i deboli non sono solo le donne ma anche altre categorie come i movimenti LGBT.

Il tuo primo film è intitolato “365 Without 377”, vincitore del Torino LGBT 2011. Puoi illustrarci di cosa tratta?
Il mio primo film verte sulla fine delle leggi antigay in India, e la data importantissima del 2 luglio 2009 indica la fine di ciò. Infatti, la Corte Suprema di Delhi ha emanato questa legge storica che ha estinto questa tradizione coloniale per cui la comunità LGBT indiana ha combattuto negli ultimi 15 anni. Nel 1860 esisteva la “Section 377” del codice penale indiano, imposto sotto il dominio inglese, che criminalizzava qualsiasi atto di natura sessuale fra due adulti dell’equivalente sesso, indicandoli come “contro natura”.
In quel periodo vivevo a Mumbay ed è stato un momento talmente forte che ho sentito l’esigenza di raccontarlo attraverso i tre personaggi che vivono questo cambiamento, sono Beena, Pallav e Abheena che percorrono le strade dell’intera città di Bombay per celebrare questo fondamentale primo anniversario di quell’avvenimento di libertà.

Il tuo film più noto è “Normal”, che presenterai al prossimo Festival di Berlino nella sezione “Panorama Dokumente”. Da dove è nata l’idea del film e di questo titolo?
Il titolo è il punto di partenza della riflessione che il film cerca di raccontare, focalizzandosi sulla costruzione sociale dei generi e su cosa sono le norme sociali relative al genere, come influenza le nostre vite, come definisce le nostre identità, chi siamo e cosa diventiamo.
I “Comizi d’amore” di Pier Paolo Pasolini sono stati il punto di avvio e il punto di principio anche nell’approccio iniziale perché l’idea di viaggiare, di ascoltare e di indagare cosa avevano da dire le persone su questi temi per me è stato importante. La ricerca che c’è dietro al film è partita dai lunghi viaggi che ho fatto e ho incontrato numerose persone con cui confrontarmi. Il confronto che ho sostenuto con loro è stato, poi, il tema del film. Il film non ha dei protagonisti e delle persone intervistate ma è strutturato come un mosaico di tante situazioni differenti, girate in tutta Italia, e ogni scena è a sé stante e racconta la crescita partendo dall’infanzia, toccando l’adolescenza ed arrivando all’età adulta. Nel film racconto come in queste fasi della vita negoziamo le nostre idee di identità di genere nei confronti delle aspettative della società.
Invece, il tema del film è nato dalla mia tesi di dottorato in studi di orientalistica, dal titolo “Visible Resistence”, che attraverso il cinema articola una riflessione sull’identità di genere. I movimenti femministi e LGBT sono temi di cui mi occupo da prima di approdare al campo cinematografico e che ho conosciuto anche prima del mio percorso accademico. Così ho voluto cimentarmi in qualcosa che desse spunto per la riflessione sul genere nel nostro agire quotidiano.

Il film non ha un taglio tipico del documentario, non c’è una voce fuori campo e neanche un taglio pedagogico. Perché hai voluto usare questa forma di documentario sperimentale?
La mia intenzione non era di fare un lavoro didattico e chiuso ma di usare la forma del documentario in senso ampio, un documentario non convenzionale, senza attaccamento ai rigidi canoni documentaristici e usarlo per proporre una riflessione aperta in cui, in qualche modo, lo spettatore si può immergere nelle situazioni ma che non viene guidato da una voce fuori campo. Non c’è una storia definita, ci si può perdere in una serie di connessioni e riflessioni che le scene propongono, una potenziale fonte di stimolo per poter riflettere su questi temi. Ci sono brevi sequenze filmate con la macchina da presa fissa e montate come se fossero scene indipendenti, senza nessun collegamento, e si procede per giustapposizioni di situazioni in cui i significati prendono corpo.

Vivi tra l’Italia e l’estero e hai voluto fare questa “esplorazione” socio – culturale in Italia attraverso il tuo film “Normal”. Ci sono delle differenze con gli altri Paesi?
I concetti di “avanti” e “indietro” sono parametri che non ci aiutano, però ci sono delle diversità socio – culturali e di costumi che caratterizzano ogni singolo Paese. Essendo italiana mi sentivo anche più a mio agio nell’interpretare questa realtà, e il film non tocca in modo preciso delle situazioni specifiche ma fa una riflessione generale su questa suddivisione binaria, su come ciò condiziona molto le vite di ognuno di noi.

Sono molte ora le giovani che si affacciano nel campo del cinema in veste di regista. Quali dritte daresti loro?
Direi loro di informarsi, di documentarsi e dare ampio spazio alla conoscenza perché più realtà comprendi più dinamiche ti sono chiare.
Direi loro di non farsi intimorire dai loro colleghi, di avere il coraggio di essere sempre se stesse e di portare sullo schermo la loro battaglia e di trasformarla in arte.

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