“Istanbul Trilogy”, Ferzan Ozpetek omaggia la sua città natale e le tradizioni che la animano

Milano. In attesa del suo ultimo lungometraggio “Nuovo Olimpo” – dal primo novembre solo in streaming – Ferzan Ozpetek ci ha regalato “Istanbul Trilogy”, ossia tre cortometraggi: “Meze”, “Musica” e “Muhabbet” visibili su Netflix.
A distanza di sei anni da “Rosso Istanbul” il regista ritorna nella sua amata città natale, quasi a farsi perdonare nella pellicola di prossima uscita la annunciata dedica a Roma e a quegli anni ’70 in cui aveva deciso di trasferirsi in Italia e, così proposte in questa sequenza cronologica, messe l’una accanto all’altra, entrambe le produzioni ci paiono un omaggio a quelle due culture che lo hanno segnato e a due epoche che, come dichiarato da Ozpetek alla Festa del Cinema di Roma, non esistono più ma sono rimaste nel suo immaginario.
E allora, contravvenendo al monito iniziale di Deniz (l’attore Nejat Isler) a Orhan (interpretato da Halit Ergenç), protagonista di “Rosso Istanbul”, che alla fine farà proprio: “Attenzione! Chi guarda al passato non vede il presente!”, Ozpetek ci torna e attraverso le storie dolorose dei tre protagonisti dei corti, che vivono differenti esperienze in cui si scontrano con la dura realtà, sottolinea come nonostante la delusione permanga, perché le proprie illusioni sono state disattese, questa viene esorcizzata dall’affetto, dalle risate e dall’ironia di chi resta a fianco nei momenti di dolore.
Tutto questo in genere si consuma intorno a una tavola imbandita con i famosi mezé, piccoli antipasti turchi come i menzionati pincur, lakerda, diblé di fagioli, haydari, tarator e kuru cacik, ol-tre ai tradizionali sarma, involtini di foglia di vite; tutti annaffiati dal raki, ossia una grappa di origine turca, un distillato di uva e anice a 45 gradi che accompagna il cibo, la felicità, la miseria, consumato generosamente nella trilogia.
Il cibo e la tavola per Ozpetek sono i veri protagonista, presenti in tutti i cortometraggi: “Perché il cibo è amore, o ci si abbandona completamente o vi si rinuncia e se lo si vuole gustare appieno non esiste una via di mezzo. Io dal cibo traggo ispirazione” – aveva detto una volta Ozpetek al Corriere della Sera.
E la tavola è il luogo intorno alla quale i commensali si mettono a nudo condividendo gioie, dolori, memorie, verità, insomma, hanno il coraggio di essere loro stessi e soprattutto di vivere: “È in-torno alla tavola che la mia macchina da presa riesce a cogliere l’autentico che alberga nelle persone, le loro rivelazioni, anche sessuali. Capita allora che, di ciak in ciak, si rida, si pianga, ci si scapigli, si solidarizzi, si nasca, si muoia. In una frase: ci si metta a nudo. Con una onestà, una intensità, ma soprattutto una profondità rara” – queste le parole di Ozpetek risalenti al 2022, in occasione di un’intervista rilasciata al Corriere della Sera in cui volle puntualizzare quanto la tavola sia tanto importante nel suo cinema quanto nella sua vita.
Così in “Meze”, una ragazza (interpretata da Ahsen Eroglu) dopo pochi mesi di conoscenza decide di sposare un uomo, nonostante l’opposizione delle due zie (una è sempre l’insuperabile Serra Yilmaz), che rifiutano di partecipare alla cerimonia e, quando nel corso della stessa il fidanzato non riuscirà a pronunciare il fatidico sì, la giovane, seguita dalle sue amiche del cuore, troverà conforto dalle due zie che subito allestiranno un delizioso pranzo a base di antipasti, consumato intorno a una tavola in giardino, con vista sul Bosforo, “passaggio” sempre presente nei film del regista. A chiudere il corto la canzone di Aldırma Deli Gönlüm, pure colonna sonora della trilogia, cantata da tutte le donne a tavola, per ribadire che gli amori si superano ma lasciano comunque tracce anche minime su chi li ha sperimentati.
Nel secondo episodio della trilogia la musica avvicina tre bambini appartenenti a un’estrazione sociale differente: ai due fratelli musicanti il più ricco regala una sfera di cristallo contenente un pesciolino rosso, che rappresenta da allora in poi la loro fortuna: infatti, da artisti di strada riusciranno ad aprire un ristorante di successo, dove, una volta adulti, si rincontreranno per caso, per-ché il bambino che era più ricco, divenuto adulto, ora in serie difficoltà economiche, è lì a cena con i suoi amici.
L’ultima opera della trilogia è “Muhabbet” che in turco vuol dire “conversazioni”: il protagonista è Selim (interpretato da Kubilay Aka), un giovane che, trasferitosi a Roma – il riferimento non può non essere autobiografico – non riesce a mettere radici nella nuova città né a ritornare a Istanbul.
Così, in una visione onirica, vaga per le strade vuote del centro di Roma per ritrovarsi, poi, in una città della costa turca, dove a mano a mano si confronta con la perdita delle persone a lui care e lo fa seduto a tavola, ancora una volta mangiando e bevendo. Il fatto che queste persone siano morte è lasciato intendere dal soffermarsi della telecamera sul corvo tatuato sul braccio del giovane.
Selim alla fine torna alla realtà, l’accetta e si siede al tavolo di un locale romano con i suoi amici italiani, consapevole che l’unica vera casa è dove prova emozioni, indipendentemente dal luogo geografico preciso.
Ora, dopo la celebrazione dei tre pilastri della cultura turca, ovvero il cibo, la musica e la conversazione, non resta che aspettare l’uscita di “Nuovo Olimpo” per comprendere quale sia il rapporto del regista con l’Italia e con Roma in particolare.

Crediti foto: Ömer Faruk Yıldız.

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