“Agosto a Osage County”, la commedia disfunzionale di Tracy Letts al Teatro Giovanni da Udine

Udine. Al Teatro Nuovo Giovanni da Udine, sabato 13 gennaio, è andato in scena il doppio spettacolo di “Agosto a Osage County”, in replica oggi, preceduto venerdì scorso dalla lezione a ingresso libero tenuta dal Prof. Peter Brown, direttore della British School FVG, dal titolo “Una cinica famiglia dell’Oklahoma”, introduttiva alla messa in scena dei giorni seguenti.
Si tratta di una produzione del Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, nella traduzione di Monica Capuani, della commedia del drammaturgo e attore statunitense Tracy Letts, vincitore del Premio Pulitzer proprio con questa opera, presentata per la prima volta nel giugno 2007 da Steppenwolf Theatre Company, Chicago, Illinois.
Al Teatro Nuovo Giovanni da Udine è invece con Filippo Dini, nella doppia veste di attore (Bill Forham) e regista, Anna Bonaiuto nei panni di Violet Weston, la moglie dipendente da farmaci, e Fabrizio Contri in quelli del marito Beverly Weston, poeta alcolizzato.
La storia – quanto mai attuale – è quella di una famiglia disfunzionale che, in occasione della scomparsa prima e del suicidio poi del padre Beverly, si incontra nella casa di origine dove la vicinanza fa rivivere vecchi conflitti, rancori, abusi e scontri che la conducono a una chiusura definitiva: “la vera morte non è per uno schiaffo ma per un lamento”.
In questo nucleo familiare le vere protagoniste sono le donne, le tre figlie di Violet e Baverly, ed è interessante come a descrivere sapientemente le loro dinamiche sia un autore maschile.
La primogenita Barbara Forham (una molto credibile Manuela Mandracchia) è vittima delle aspettative genitoriali legate al perfezionismo, con la consapevolezza però di non riuscire a soddisfarle. L’immaturità emotiva dei genitori la costringe a far sì che sia lei ad assumere ruoli genitoriali e, pur rifiutando i loro comportamenti, finisce per ripeterli sia cadendo vittima dell’abuso di alcool e farmaci, dai quali aveva cercato di salvare la madre, sia nel rapporto con la figlia quattordicenne Jean Fordham (una promettente giovanissima Caterina Tieghi), che a sua volta è vittima delle attenzioni sessuali del promesso sposo di Karen Weston, la più piccola tra le sorelle.
Quest’ultima è a sua volta vittima della negligenza emotiva dei genitori, che non son stati capaci di nutrirla di amore, interesse e attenzione ed è a tal punto desiderosa di affetto da essere incapace di scegliere il proprio partner, così è pronta a sposare Steve Heidebrecht (Fulvio Pepe) perché le promette di realizzare i suoi desideri infantili, cosa che le impedisce di vedere che anche lui è un soggetto manipolatore e abusante.
Infine, c’è la secondogenita Ivy Weston (la brava Orietta Notari) che subisce il controllo di Violet, la quale, ignorando le sue opinioni, prende le decisioni al suo posto, che si tratti della piega dei capelli, degli abiti o infine del fidanzato.
E quando Ivy si innamora di Charlie Piccolo (Edoardo Sorgente) vede il suo sogno infrangersi per la sfrontata e cruda rivelazione della madre che, senza mezzi termini, le dice che quello è il fratellastro, nato da una relazione del padre con la zia Mattie Fae Aiken.
La mancanza di comunicazione è quella che regna sovrana, espressa in apertura con i monologhi serrati di Beverly, poi di Mattie, per trasformarsi in urla, parolacce e scontri fisici, alleggeriti da battute ironiche e dissacranti.
Violet (nella bella interpretazione di Anna Bonaiuto) solo quando è impasticcata riesce a esprimere quello che realmente pensa, con grande violenza verbale, rivangando un passato di privazioni e sofferenze, cui fa da contraltare un corpo che si muove molle nello spazio, cadendo su tutto quello che la circonda, che sia una sedia o un mobile, per rovinare alla fine sul palcoscenico quando si rende conto del vuoto che la circonda, sottolineato dal roteare in giro con le braccia alzate.
E se “lo spazio è tutt’altro che un fondale neutro, quinte occasionali… ma è l’emblema stesso dei fatti che rappresenta”, qui l’Oklahoma, terra inospitale per il clima torrido, simboleggia l’aridità d’animo dei personaggi, ma che si tratti proprio dello Stato americano noi ne abbiamo contezza solo dall’elemento dialogico e dallo sventolio dei ventagli, di qualsiasi cosa possa generare un po’ di vento.
Tutta la narrazione, infatti, si svolge all’interno della casa di famiglia, i cui ambienti vengono sapientemente ricreati attraverso delle quinte girevoli, spostate a mano dagli stessi attori, con la zona notte nella seconda parte del palcoscenico, in alto. Si tratta di interni che possono essere ovunque e in qualunque periodo storico, proprio perché l’obiettivo – centrato – di Tracy Letts era quello di offrire un tema universale.
Ci si può salvare da una famiglia disfunzionale? Dopo l’illusione che insieme si possa migliorare – sottolineato dal cambio di luci in scena – si ripiomba nella penombra e, solo allontanandosi, come fanno le tre figlie, e prendendosi cura di sé, si ha la possibilità di guarire e non ripetere gli errori dei propri genitori.

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