“Miseria e Nobiltà”, Luciano Melchionna propone una rivisitazione coraggiosa all’Augusteo

Napoli. Con l’anteprima nazionale il 22 novembre, il Teatro Augusteo ha dato il via alla rappresentazione di “Miseria e Nobiltà”, in scena fino al I dicembre, produzione Ente Teatro Cronaca e SGAT Napoli (Gruppo Augusteo).
Non è la versione tradizionale della famosa e nota opera di Eduardo Scarpetta ma un adattamento di Lello Arena e Luciano Melchionna, che ne cura pure la regia e l’ideazione scenica.
Anche solo per questo meriterebbe di essere vista, per premiare il coraggio e quel pizzico di follia che bisogna avere per decidere di mettere mano a quella che è la commedia con cui il drammaturgo ha avuto più successo, quando poi con lei si sono cimentati grandi attori e registi.
Immediato e naturale è infatti il rischio di confrontarla con la versione classica di Eduardo De Filippo, ancora oggi visibile nella teca di Raiplay, o con la trasposizione cinematografica del 1954 di Mario Mattoli più leggera e divertente, ricordata per la presenza e le battute di Totò, Sophia Loren ed Enzo Turco, protagonisti delle famosissime scene degli spaghetti, della macchina fotografica e della lettera da scrivere per un contadino ignorante arrivato in città.
Quella proposta dal Teatro Augusteo è in due atti della durata di circa un’ora ciascuno con un intervallo di mezz’ora, necessario per sgomberare il palcoscenico dall’ingombrante scenografia del primo atto, dove non è proposta la miseria del teatro di Scarpetta del piano della borghesia decaduta ma quella di Viviani del basso.
Ed è qui che si vede il Melchionna della sperimentazione artistica, capace di trasformare, adattare la storia al mondo contemporaneo, senza tradirne il senso anzi utilizzando l’espressione tradizionale, per aggiungere un significato sociale e umano ulteriore, che rende l’opera sempre attuale e accattivante.
La prima scena si apre con una sequenza di lucine che si accendono a suon di musica (è di Stag) per introdurci nell’atmosfera lugubre e decadente di una discarica distopica (le scene sono di Roberto Crea), che per i colori e l’illuminazione ricorda il mondo cyberpunk di “Blade Runner”.
E mentre lì è la tecnologia indistinguibile dall’umano, qui a non essere chiaro è il confine tra l’uomo e l’animale, i personaggi infatti, per raggiungere il centro del palcoscenico in cui è posizionato un tavolo da pranzo, sono costretti a strisciare e trascinare il proprio corpo come topi o serpenti e a farsi largo sgomitando – come nella vita reale – tra i ponteggi che reggono l’impalcatura terrazzata dove ai vertici a destra è posizionata donna Concetta, intenta a farsi un lungo pediluvio, e a sinistra Luisella che si agita nel poco spazio libero a disposizione.
Il senso di cupa oppressione dovuto alle suppellettili accatastate e alla gabbia nella quale la povertà ha costretto a vivere i due nuclei familiari è in contrasto con i divertenti giochi di parole ed equivoci generati dai battibecchi tra Concetta, con Pupella che le fa da spalla, e Luisella e anche con i loro costumi (molto belle le creazioni di Milla per fattura e scelte cromatiche), apparentemente stracci, che ricordano gli abiti di fine Ottocento rivisitati in chiave moderna.
La storia è quella nota della quale si è voluta sottolineare la plasticità dei corpi, dando più spazio alla mimica, facendo così perdere ai protagonisti quella fissità della commedia di Eduardo.
Questo è evidente ad esempio in Peppiniello, che soprattutto nelle prime battute ricorda il burattino di Totò a colori o il Pulcinella di Tonino Taiuti.
In ordine alfabetico si ricordano gli attori, tutti bravi: Raffaele Ausiello, Chiara Baffi, Marika De Chiara, Andrea De Goyzueta, Renato De Simone, Valentina Elia, Alessandro Freschi, Luciano Giugliano, Irene Grasso, Ingrid Sansone, Raffaele Milite, Fabio Rossi.
Il secondo atto si apre con lo squarcio del velo che segna il passaggio dal mondo della miseria a quello della nobiltà ed ecco allora un cambio di luce: bianca, accecante, come il resto della scenografia che ci riporta a una villa del primo Novecento, dove l’unica nota di colore a spezzare questo bianco assoluto sono i cesti di rose rosse per il compleanno di Gemma.
Qui Melchionna purtroppo ha osato di meno, forse nel timore di non soddisfare l’immaginario collettivo di chi legge sul cartellone “Miseria e Nobiltà” e si aspetta di assistere alla tipica commedia napoletana.
È indubbio che l’obiettivo è creare un contrasto con il primo tempo per rendere il rovescio della miseria ma se Melchionna avesse seguito il proprio istinto, continuando nel percorso visivo ed emozionale intrapreso nel primo tempo, avrebbe realizzato una perfetta architettura capace di far dimenticare l’originale e di farla brillare di luce propria, con personaggi dotati di un approfondimento psicologico che è accennato nel primo atto, che non nuoce affatto alla risata e al buonumore; mentre, non spingendo fino in fondo il desiderio di innovare e attualizzare, il rischio che si corre è di una comicità farsesca.

Crediti foto: Anna Abet.

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